Spalla a spalla

ebrei cristianidi Jorge Mario Bergoglio

«La Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe “ai quali appartiene l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne” (Romani 9, 4-5), figlio di Maria Vergine.
Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo (…) Gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento (…) Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo» (Nostra aetate). Il 28 ottobre 1965 fu promulgata la dichiarazione Nostra aetate, nel quadro del concilio Vaticano II. Sebbene tutti i suoi documenti siano di somma importanza per la Chiesa, la N o s t ra aetate — affrontando in modo tanto radicale il rapporto con il popolo di Nostro Signore Gesù Cristo — p ossiede un valore speciale. Con questa dichiarazione viene esplicitato e promulgato che non c’è posto nella Chiesa per espressioni come «popolo deicida» o «perfidi giudei». Le manifestazioni e le concezioni che avevano eretto barriere — molte volte di zizzania e di odio tra cattolici ed ebrei — dovevano essere sradicate per sempre. Al loro posto si dovevano erigere ponti di mutua comprensione e di dialogo che portassero a un sentimento fraterno. Nacque poi un nuovo appellativo per indicare il popolo ebraico: «fratelli maggiori». A partire dal clamore generato da questo documento, intuito da Giovanni XXIII e firmato da Paolo VI, l’affermazione che «antisemitismo è anticristianesimo e anticristianesimo è antisemitismo» è divenuta una norma e una base per la catechesi della Chiesa. Il movimento generato da questa dichiarazione ha propiziato le famose visite di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a diverse sinagoghe e, sul piano politico, l’instaurazione di relazioni diplomatiche tra il Vaticano e Israele. Il dialogo che permette di approfondire la conoscenza reciproca, lo studio condiviso e la realizzazione di progetti per il bene comune hanno ricreato in numerosi ambiti il primigenio sentimento di fratellanza che non si sarebbe mai dovuto perdere. La costituzione apostolica con la quale Giovanni XXIII convocò il concilio Vaticano II dice: «In questo nostro tempo la Chiesa vede la comunità umana gravemente turbata aspirare ad un totale rinnovamento. E mentre l’umanità si avvia verso un nuovo ordine di cose, compiti vastissimi sovrastano la Chiesa, come sappiamo avvenuto in ogni più tragica situazione». Pur essendo trascorso più di mezzo secolo da quando questi concetti furono espressi, essi continuano a essere validi, e in modo ancora più drammatico oggi. I progressi tecnologici e scientifici in tutti i campi dell’esistenza, i rapidi cambiamenti suscitati dalla modernità e dalla postmodernità richiedono risposte agli studiosi e a quanti si sono impegnati con la fede, interrogandosi sul senso dell’esistenza stessa. Il cristianesimo è stato uno degli assi culturali su cui si è costruita la cultura dell’occidente. Le sue radici primigenie sono le sacre Scritture ebraiche, le quali, a loro volta, sono base e fondamento dello sviluppo religioso e culturale ebraico. Nei momenti di crisi tutti dobbiamo rivolgere uno sguardo retrospettivo all’essenza del nostro essere, alle radici della nostra esistenza. L’essere cristiani è intimamente legato all’essere ebrei. I tempi presenti richiedono un approfondimento nel dialogo che permetta, agli uni e agli altri, di trovare risposte sempre più significative alla crescente complessità che caratterizza la vita presente. I profeti intuirono un tempo in cui si sarebbe servito Dio «spalla a spalla» (Sofonia 3, 9), in cui «Dio sarà uno e uno il suo nome» (Zaccaria 14, 9), perché sicuramente «un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2, 4; Michea 4, 3). Il dialogo al quale la Nostra aetate allude possiede queste visioni come sfida ultima a cui devono tendere d’ora in poi gli sforzi congiunti dei cattolici che sanno trovare la dimensione che li unisce ai loro fratelli maggiori. Per lo stesso motivo le dichiarazioni come Nostra aetate sono feconde solo nella misura in cui generano azioni, perché lo spirito della lettera che si trasforma in fatti cessa di essere una mera intenzione per divenire azione viva ed efficace.

Buenos Aires, 2 gennaio 2013

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