×

Avviso

Lack of access rights - File '/images/oriente-cristiano/cceo.jpg'

Articoli

L’Oriente che è in noi

cceodi DIMITRIOS SALACHAS

A cinquant’anni dal concilio Vaticano II e dalla pubblicazione del decreto Orientalium ecclesiarum ( OE ), e a venticinque anni dalla promulgazione del «Codex canonum Ecclesiarum Orientalium» (C CEO ) è opportuno un bilancio circa lo status quaestionis che tutt’oggi viene dibattuto, cioè della potestà dei patriarchi e dei loro sinodi fuori dai confini del territorio della Chiesa patriarcale.
Si tratta di una problematica ecclesiologica, canonica e pastorale che include la nozione del territorio, la natura della potestà ecclesiastica, l’ambito d’applicazione della legge, e soprattutto la cura pastorale dei milioni di fedeli cattolici orientali emigrati negli ultimi due secoli in occidente e sparsi oggi in tutto il mondo. Il principio di territorialità dell’esercizio della potestà episcopale è stabilito sin dall’antichità, come attestano i sacri canones , e la cui trasgressione comportava gravi misure penali. Indicativamente, ne parlano il canone 34 degli Apostoli, i canoni 13 e 22 del sinodo di Antiochia (341), e il canone 2 del concilio ecumenico di Costantinopoli I (381). Quest’ultimo prescrive che «i vescovi di una diocesi non intervengano nelle Chiese situate fuori dai loro confini, né le gettino nel disordine. A meno che non vengano chiamati, i vescovi non escano dalla propria diocesi per ordinazioni e altri atti del loro ministero». Il decreto conciliare OE consacra cinque paragrafi (nn. 7-11) all’istituzione patriarcale e ai patriarchi orientali, descrivendo la nozione, l’origine e la potestà: «Col nome di patriarca orientale si intende un vescovo, cui compete la giurisdizione su tutti i vescovi, compresi i metropoliti, il clero e il popolo del proprio territorio o rito, a norma del diritto e salvo restando il primato del Romano Pontefice» (n. 7). «Secondo un’antichissima tradizione della Chiesa è riserbato uno speciale onore ai patriarchi delle Chiese orientali, dato che ognuno presiede al suo patriarcato come padre e capo. I patriarchi coi loro sinodi costituiscono la superiore istanza per qualsiasi pratica del patriarcato, non escluso il diritto di costituire nuove eparchie e di nominare vescovi del loro rito entro i confini del territorio patriarcale, salvo restando l’inalienabile diritto del Romano Pontefice di intervenire nei singoli casi» (n. 9). Il C C E O , canone 56, ha sostituito il termine «giurisdizione» con il termine «potestà», proprio per evitare il carattere di «autorità dominante» del patriarca sui vescovi e sui sinodi, per inserire l’istituzione patriarcale nella struttura sinodale delle Chiese orientali, e per salvaguardare la potestà dei singoli vescovi eparchiali sulla propria Chiesa particolare. Infatti il C C E O , canone 178, in conformità al decreto Christus Dominus sull’ufficio pastorale dei vescovi, definisce il Vescovo eparchiale come «colui al quale è stata affidata da pascere a nome proprio l’eparchia, la governa come vicario e legato di Cristo; la potestà, che egli esercita personalmente a nome di Cristo, è propria, ordinaria, immediata, anche se in ultima istanza l’esercizio della stessa potestà è regolato dalla suprema autorità della Chiesa e può essere circoscritto entro certi limiti in vista dell’utilità della Chiesa o dei fedeli cristiani». Il C C E O , canone 146, si limita a una descrizione del tutto convenzionale di “territorio patriarcale”, in quanto ritiene come tale quello che «si estende a quelle regioni nelle quali si osserva il rito proprio della stessa Chiesa e dove il patriarca ha il diritto legittimamente acquistato di erigere province, eparchie, come pure esarcati». Una descrizione sensu lato giuridica, prammatica voluta appositamente dal legislatore per salvaguardare l’ordine ecclesiastico, per evitare eventuali dubbi e conflitti di giurisdizione tra le Gerarchie di diverse Chiese sui iuris , ma allo stesso tempo per lasciare aperta la possibilità che un determinato territorio di una Chiesa patriarcale possa essere esteso dalla Santa Sede anche oltre le regiones orientales . Non è perciò escluso de iure condendo che la Sede Apostolica estenda il diritto del patriarca di erigere province, eparchie, come pure esarcati anche a quelle regioni al di fuori del territorio patriarcale tradizionale. L’espressione «regioni nelle quali si osserva il rito proprio della stessa Chiesa» intende significare che si tratti di quelle regioni nelle quali è nato e si osserva ab antiquitate il rito proprio della stessa Chiesa. In concreto, la tradizione alessandrina è nata in Alessandria d’Egitto, la tradizione antiochena in Antiochia, la tradizione armena in Armenia, la tradizione caldea in Babilonia, la costantinopolitana a Bisanzio. I riti che hanno origine da queste cinque tradizioni sono distinti per cultura e circostanze storiche dei popoli dimoranti in determinate aree geografiche dell’O riente cristiano. Con la massiccia mobilitazione e trasmigrazione dei popoli, i vari riti orientali come anche quello latino seguono e accompagnano in ogni luogo la persona di ciascun fedele; perciò si estendono e si osservano in ogni angolo della terra: i riti orientali seguono le persone e le loro comunità dimoranti in tutto l’Occidente, e il rito latino segue le persone e le loro comunità dimoranti in tutto l’Oriente. Ciascun fedele col battesimo appartiene a una Chiesa sui iuris , e vive, celebra e testimonia la sua fede cattolica nel proprio rito, cioè nel proprio patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare. Il rito contraddistingue e fa parte dell’identità ecclesiale di ogni fedele. Il fenomeno perciò della massiccia mobilitazione e trasmigrazione dei popoli dall’Oriente all’O ccidente e dall’Occidente all’Oriente, e in particolare — dal secolo scorso a oggi — l’installazione in Occidente di milioni di fedeli cattolici di varie Chiese sui iuris , di comunità ecclesiali di diversi riti e tradizioni orientali che si trovano nelle circoscrizioni territoriali della Chiesa latina, pone inevitabilmente un problema più generico, ecclesiologico, giuridico e pastorale, cioè del rapporto tra “territorio geografico” e “territorio di una comunità ecclesiale locale di fedeli organicamente costituita”. La mobilità della società in questi ultimi due secoli tende necessariamente a riconsiderare la comprensione stessa di territorio. Infatti, il fenomeno della diaspora è la prova esistenziale che in un determinato territorio si possono avere radicate più comunità ecclesiali orientali organicamente costituite sotto la giurisdizione di una gerarchia propria, e regolate da una propria disciplina diversa da quella in vigore in loco , in cui dimorano. Pertanto, mentre il rito proprio dei fedeli di una determinata comunità ecclesiale è un elemento di identità personale e segue la persona come individuo, come gruppo e come comunità in qualsiasi luogo, la potestà del patriarca è circoscritta entro i confini di quelle regioni tradizionalmente ritenute come orientali, cioè nella parte orientale dell’antico impero romano. L’installazione di una comunità di fedeli in un determinato territorio rende più flessibile il concetto puramente geografico di territorio, nel senso che dove c’è una comunità ecclesiale rituale diversa dalla comunità rituale in loco , viene legittimamente acquisito un proprio territorio, cioè ubi communitas ecclesialis fidelium organice constituta, ibi territorium . A differenza dei criteri per definire il concetto di “territorio nazionale” e circoscriverlo, come anche per l’acquisto di cittadinanza nell’o rd i namento civilistico nazionale e nel diritto internazionale, per la Chiesa in un determinato territorio geografico le diverse comunità ecclesiali ivi istallate acquistano il diritto personale di cittadinanza, il diritto di esistere e operare secondo le proprie discipline. Ciò si verifica già da secoli nelle stesse regioni tradizionalmente orientali, dove più patriarchi e vescovi cattolici, orientali e latini, esercitano la loro potestà nella stessa città e nello stesso territorio sulle proprie comunità, in virtù del proprio rito, cioè del patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, e con strutture anche di assemblee interrituali. L’installazione di una comunità di fedeli in un determinato territorio rende più flessibile anche lo stesso principio di sant’Ignazio di Antiochia ubi episcopos ibi catholica est ecclesia , inteso in termini giuridici come un vescovo per ciascuna città. Lo conferma anche il Codice latino, canone 372, il quale, dopo aver stabilito che «di regola la porzione del popolo di Dio, che costituisce una diocesi o un’altra Chiesa particolare, sia circoscritta entro un determinato territorio, in modo da comprendere tutti i fedeli che abitano in quel territorio», aggiunge che «dove a giudizio della suprema autorità della Chiesa, sentite le Conferenze episcopali interessate, l’utilità lo suggerisca, nello stesso territorio possono essere erette Chiese particolari distinte sulla base del rito dei fedeli o per altri simili motivi». Ogni fedele cattolico di qualsiasi cittadinanza civile, nazionalità, etnia, lingua, in qualsiasi luogo del mondo si trovi è cittadino della Chiesa cattolica, la quale non si identifica con una cultura, ma accoglie, valorizza ed evangelizza ogni cultura. La missione della Chiesa in ogni luogo è l’inculturazione del Vangelo, e l’evangelizzazione della cultura.

© Osservatore Romano - 15 novembre 2014