Se i musulmani difendono le chiese cristiane

not in my name(di Anna Bono)

La notte di Natale un gruppo di uomini musulmani, dodici in tutto, sono andati a presidiare una
chiesa. Hanno fatto la guardia, schierati davanti all’ingresso, per tutto il tempo in cui all’interno
dell’edificio si è celebrata la messa di mezzanotte. È successo a Lens, una cittadina di circa 36.000
abitanti, situata nella regione del Pas-de-Calais, nel nord della Francia. La chiesa è quella
della
parrocchia di San Francesco d’Assisi. L’iniziativa è stata accolta con gratitudine e commozione dai
200 fedeli che hanno assistito alla messa. Padre Xavier Lemblé, il sacerdote officiante, al termine
della funzione ha regalato ai musulmani di sentinella il lume della pace di Betlemme, ringraziandoli
calorosamente.
L’idea di questo gesto simbolico è venuta alla Federazione delle associazioni islamiche del Nord-Pas-
de-Calais dopo che, nei giorniprecedenti il Natale, il ministro dell’interno francese Bernard Cazeneuve aveva raccomandato di intensificare le misure di sicurezza in
prossimità delle chiese nel periodo natalizio e in particolare mentre si celebravano le messe. Non è certo una buona notizia che in Francia sia
stato raggiunto un tale livello di allarme: peraltro ben comprensibile e più che giustificato, dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre in cui
129 persone hanno perso la vita e 350 sono state ferite.
Finora l’allarme terrorismo che ogni anno aumenta in occasione delle principali ricorrenze cristiane –
le chiese protette con posti di
blocco per impedire alle autobomba di avvicinarsi, i controlli di sicurezza a ogni porta d’accesso e la perquisizione dei fedeli per controllare
che non indossino armi o esplosivi – è stato un problema di Paesi a maggioranza islamica, come il Pakistan e l’Indonesia, oppure con una
componente islamica consistente, come in Nigeria, o ancora di Paesi in cui i musulmani costituiscono una minoranza, ma con forti componenti
integraliste al suo interno, come ad esempio in Kenya e in Tanzania. È il primo anno che dei cristiani si sentono minacciati, in pericolo in un
paese europeo.
Con il presidio della chiesa, a protezione dei fedeli in preghiera, si è voluto dare un segno forte di
unità e tolleranza tra musulmani e
cristiani, ha detto il presidente della Federazione delle associazioni islamiche Nord-Pas-de-Calais, Abdelkader Aoussedj. Brahim Ait Moussa,
membro dell’Unione del cittadini musulmani, Ucm, del Pas-de-Calais, ha spiegato: «è stato soprattutto un messaggio d’amore e solidarietà, un
modo per esprimere amore in questi momenti in cui non è facile per noi far capire a coloro che amiamo quanto ci stiano a cuore». Il segretario
della Ucm, Hashim El Jazaoui, ha aggiunto in un comunicato televisivo: «con questo gesto vogliamo dire che siamo tutti uniti, che siamo
fratelli, che siamo sulla stessa barca. Se la barca affonda, affondiamo tutti. Se della gente squilibrata ci vuole uccidere, dovrà ucciderci tutti
quanti insieme».
Sono parole che fanno venire in mente quelle molto simili pronunciate dai musulmani che il 21
dicembre, in Kenya, viaggiavano
insieme a dei cristiani sul pullman che è stato attaccato dai jihadisti somali al Shabaab. Quando i terroristi hanno ingiunto ai passeggeri di
scendere dal pullman e di dividersi in due gruppi – i cristiani separati dai musulmani – questi ultimi si sono ribellati. Ben sapendo che, come è
già successo più volte, gli al Shabaab li avrebbero lasciato andare e avrebbero ucciso tutti i cristiani, hanno rifiutato di obbedire all’ordine di
identificarsi e mettersi da parte dicendo: «uccideteci insieme a loro o lasciateci andare tutti». I jihadisti potevano decidere di uccidere tutti.
Invece, forse perché erano pochi e temevano l’arrivo di gente armata dai villaggi vicini, hanno desistito, se ne sono andati e così è stata
evitata una nuova strage.
La notizia di questo grande atto di coraggio ha fatto il giro del mondo. Non tutti i mass media però
hanno riportato un dettaglio della
vicenda che è emerso solo molte ore dopo l’agguato e che merita di essere raccontato. Sul pullman c’erano anche delle donne, cristiane e
islamiche. Queste ultime, come prescrive la loro fede, indossavano il velo che, in quella parte del Kenya, è il chador: un ampio mantello nero
da portare fuori casa, che nasconde tutto il corpo dalla testa ai piedi lasciando scoperto solo il viso. Quando i passeggeri del pullman si sono
resi conto che lungo la strada c’era un ostacolo e che si trattava di un agguato dei jihadisti al Shabaab, le donne islamiche si sono tolte in
fretta i loro chador e li hanno passati alle donne cristiane, dicendo: «indossateli, ché forse così vi scambiano per musulmane e non vi fanno
niente». Di essere musulmane – hanno spiegato in seguito – loro avrebbero potuto dimostrarlo anche senza il velo, recitando un versetto del
corano o delle preghiere.

©  lanuovabq.it  -  2.1.2016