Ponte di pace nella terra di Gesù

san Giacomo in CamminoGERUSALEMME, 12. Un «ponte per la riconciliazione» tra ebrei e cattolici, ma anche uno strumento per rendere più evidente l’«alternativa » alla guerra tra il mondo palestinese (e arabo) e quello israeliano. Così padre David Neuhaus, vicario del patriarcato di Gerusalemme dei Latini per i fedeli cattolici di espressione ebraica, sottolinea il ruolo peculiare a cui è chiamata la comunità ebraico-cristiana nello Stato di Israele. Realtà costituita da migliaia di cristiani immigrati dopo il 1948, da ebrei «che avevano incontrato Cristo e lo avevano riconosciuto come Messia e Signore», nonché da cristiani membri di famiglie ebraiche. Lo ha fatto con una lettera pastorale, che porta la data del 9 agosto, memoria liturgica di santa Edith Stein, diffusa in occasione del sessantesimo anniversariodella fondazione dell’Opera di San Giacomo, che — viene ricordato — «ha dato inizio a comunità cristiane interamente legate alle loro radici ebraiche, nello Stato di Israele, parlando ebraico, una lingua che non era mai stata usata prima nella vita e nella liturgiacristiana, testimoniando i valori del Vangelo nella società israeliana di lingua ebraica». Una realtà che, come «la prima Chiesa di Gerusalemme», si sente «completamente a casa nel mondo ebraico». Infatti, «la creazione dello Stato di Israele nel 1948 ha fornito il contesto in cui, per la prima volta dal primo secolo, i cristiani vivevano all’interno di una maggioranza ebraica, in una società definita dalla religione, dalla storia e dalla civiltà ebraica». Così come, dal punto di vista ecclesiale, l’insegnamento del documento conciliare Nostra aetate e degli altri che ne sono seguiti ha «contribuito a una delle piú grandi rivoluzioni del ventesimo secolo, quella dei rapporti tra ebrei e cristiani ». Laddove «il diffuso “insegnamento del disprezzo” tra i cristiani ha lasciato il posto all’insegnamento del rispetto». In tal senso, sottolinea il documento, «una comunità cattolica israeliana di credenti in Gesù, che vive integrata nella società ebraica israeliana, funge da ponte per la guarigione e la riconciliazione tra ebrei e cristiani nella terra di Gesù». Allo stesso tempo, quindi, «i discepoli di Cristo che parlano ebraico e arabo sono chiamati a dimostrare che la giustizia, la pace e l’uguaglianza sono possibili anche nella nostra terra. La nostra vita di fede deve mostrare le alternative alla guerra e alla violenza, al disprezzo e alla discriminazione, coinvolgendo l’altro come fratello e sorella. I discepoli di Cristo — afferma Neuhaus — possono essere un ponte tra il mondo palestinese (e arabo) e quello israeliano. Dobbiamo essere sensibili alle ingiustizie ovunque siano presenti, soprattutto nella nostra società ».

© Osservatore Romano - 13 agosto 2015