Davanti alle idolatrie globalizzate - di Gianni Valente

papa e imam gvLa Chiesa cattolica «guarda con stima» i musulmani che «cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio», e «attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati».

Anche per questo invita cristiani e musulmani a «esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà». Le parole della dichiarazione conciliare Nostra aetate suonano come profezia, nei giorni in cui a Roma, al Cairo, ad Abu Dhabi e in tutto il mondo si celebra la Giornata mondiale della fratellanza umana, istituita dall’Onu proprio sull’onda del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune sottoscritto il 4 febbraio 2019 a Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande imam di Al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb.

Dai tempi del concilio Vaticano ii , la Chiesa di Roma continua a ricalibrare periodicamente la propria attitudine davanti alle moltitudini oranti della “umma” di Muhammad. A due anni dalla sua pubblicazione il Documento di Abu Dhabi, co-firmato dal Vescovo di Roma e dal primo rappresentante del più autorevole centro teologico sunnita, continua ad allargare gli orizzonti dove poter innescare processi benefici per tutti. Si rende palpabile quanto fosse lungimirante la “scommessa” conciliare che attendeva e domandava nuovi cammini di condivisione e prossimità tra i battezzati e credenti che adorano Dio secondo il Corano, nella concretezza dei contesti storici, a vantaggio di tutto il genere umano. Nel documento c’è un tratto preminente che non è stato messo a fuoco con la dovuta considerazione dalla mole di rilanci celebrativi di quel testo: è il “comune sentire” con cui il Papa e l’imam offrono la riscoperta della fraternità dei figli di Dio anche come riserva di pensiero critico nei confronti delle nuove idolatrie individualiste e consumiste in cui sembra affogare il tempo della globalizzazione. Il testo — è stato giustamente rilevato — pone argini solidi davanti a ogni pulsione a trasformare contenuti religiosi in benzina per fomentare «sentimenti di odio, ostilità, estremismo», usando il nome di Dio «per terrorizzare la gente» e denunciando le «interpretazioni errate dei testi religiosi» insieme «alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione». Si legge, tra l’altro, che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità»; ha donato loro la libertà, «creandoli liberi», e per questo «ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione». Con altrettanta lucidità di sguardo, si riconoscono come fattori ed espressione dei processi di disumanizzazione «una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo».

Senza invocare “guerre culturali”, il Papa e il Grande imam passano in rassegna fenomeni sociali e interrogativi etici del tempo presente riproponendo come risorsa preziosa di orientamento quella che in termini filosofici occidentali “classici” viene definita “legge morale naturale”, che credenti e non credenti possono riconoscere iscritta nell’opera della Creazione. Senza temere di esporsi ad accuse di oscurantismo, i due leader religiosi ripetono che l’ingiustizia e la distribuzione iniqua delle risorse naturali «hanno generato, e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali»; che la famiglia è «essenziale» come nucleo fondamentale della società e dell’umanità, «per dare alla luce dei figli, allevarli, educarli, fornire loro una solida morale»; che la vita è un dono del Creatore «che nessuno ha il diritto di togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento», e deve essere custodito «dal suo inizio fino alla sua morte naturale», contrastando anche «l’aborto, l’eutanasia e le politiche che sostengono tutto questo. Negli ultimi decenni, le polemiche occidentaliste nei confronti dell’islam hanno riproposto fino alla nausea le loro tesi sulla natura intrinsecamente violenta della fede coranica, sulla sua incompatibilità con gli standard della modernità tollerante e col culto moderno dei diritti individuali. La Chiesa cattolica, e Papa Francesco, come i suoi predecessori, non hanno mai assunto posture da “precettore” dell’islam, incaricati di promuovere il suo “adattamento” alla modernità pluralista. E forse proprio il cammino di dialogo, rispetto e amicizia ripartito con nuovo slancio con il documento di Abu Dhabi contribuisce al clima di fiducia e prossimità in cui fioriscono anche un numero crescente di riflessioni, interventi e dichiarazioni di intellettuali e studiosi musulmani.

Il professor Martino Diez, direttore scientifico della fondazione internazionale Oasis, ha sottolineato come non solo il Documento di Abu Dhabi, ma anche altri testi sottoscritti da studiosi musulmani — come la Dichiarazione di Marrakech (gennaio 2016) o la Carta della Nuova alleanza delle virtù (presentata nel dicembre 2019 ad Abu Dhabi) — esprimono il tentativo di “riattivare” nell’islam il riferimento a quello che in termini filosofici occidentali si chiamerebbe “diritto naturale”. Una “riattivazione” tentata non come allineamento a modelli di pensiero importati da altre tradizioni, ma rinvenendo nel dato scritturale dell’islam tutto ciò che è «a favore di una concezione naturale del diritto».

In tale ricerca, finora registrabile negli ambienti accademico-intellettuali, si può vedere un tentativo di affrontare anche i dilemmi etici del presente senza fermarsi al “volontarismo” della scuola teologica asharita, secondo il quale non esisterebbero un bene o un male in sé, ma sarebbe Dio a fissare nella sua rivelazione i criteri etici dell’agire, codificati nella sharia, la legge coranica. Del resto, ha ricordato lo stesso professor Diez, il teologo islamico “riformista” Muhammad ‘Abduh, già nella seconda metà dell’Ottocento aveva scritto nel suo Trattato sull’unicità divina che «la Legge è venuta a chiarire la realtà, e non a creare il bene». E nel lungo periodo, anche i dialoghi condivisi in cui studiosi e teologi musulmani cercano insieme ad altri soggetti un “terreno comune” per affrontare le emergenze etiche del presente potrebbero suggerire prospettive nuove, pure riguardo al rapporto dell’islam con la modernità, con le dinamiche politiche e con le società connotate dal pluralismo etico, religioso e culturale.