Tra memoria e immaginazione

antisemitismo homedi ANNA FOA

 

È possibile tenere nettamente distinta la sfera della storia da quella della memo-ria e dall’immaginazione? È possibile per un sopravvissuto di Auschwitz che fa di mestiere lo storico mantenere per tutta la sua vita un assoluto rigore scientifico nell’affrontare la storia della Shoah e in età più che matura pubblicare memorie, fantasticherie, sogni e brani di diario che affrontano Au-schwitz da un punto di vista completa-mente diverso, quello della soggettività, della percezione costante, anche dopo il campo, della inesorabile ed assoluta presenza della Morte? È quanto ha fat-to Otto Dov Kulka, praghese, deporta-to bambino a Theresienstadt e poi a Birkenau, docente di Storia Moderna alla Hebrew University, figlio a sua vol-ta di un altro superstite, storico e gior-nalista, anch’egli studioso della Shoah, Erich Kulka, a cui il Museo di There-sienstadt ha dedicato in anni recenti una statua. Dov Kulka ha vissuto durante la de-portazione a Birkenau un destino asso-lutamente anomalo ed eccezionale, sfuggendo alla morte in due diverse oc-casioni: la prima quando insieme alla madre è stato deportato a dieci anni da Theresienstadt a Birkenau, finendo del tutto casualmente in un apposito campo creato a scopo propagandistico, dove fra l’autunno del 1943 e l’estate del 1944 tre gruppi successivi di 5.000 ebrei cechi e tedeschi furono spostati da Theresien-stadt, un campo in cui le famiglie non erano divise, in cui le teste dei deportati non venivano rasate, in cui i bambini non venivano gassati all’arrivo: un cam-po privilegiato rispetto agli altri. Ma da questo campo i primi arrivati furono tutti inviati alle camere a gas, senza es-sere nemmeno sottoposti alla normale selezione, allo scadere di sei mesi, nel marzo 1944. In un saggio rigorosamente storico collocato alla fine del libro Paesaggi del-la metropoli della Morte. Riflessioni su memoria e immaginazione (Milano, Guanda, 2013, pagine 183, euro 17), Kul-ka spiega l’esistenza di questo campo. I gruppi di 5.000 ebrei che si succedeva-no, poi mandati al gas, erano destinati in realtà a ingannare la Croce Rossa In-ternazionale nel caso i suoi inviati, do-po aver visitato Theresienstadt, come fecero nel 1944, avessero chiesto di visi-tare anche uno dei campi più a est. I primi 5.000 ebrei furono infatti gassati in uno stallo delle trattative fra Himm-ler e la Croce Rossa. Poi, dopo la loro visita a Theresienstadt, nel 1944, gli ispettori della Croce Rossa si dichiara-rono soddisfatti delle condizioni in cui vivevano i prigionieri, senza chiedere di visitare Auschwitz, e così anche gli altri ebrei del “campo famiglia” di Birkenau furono mandati alle camere a gas. La seconda occasione in cui Dov Kulka è sfuggito alla morte fu proprio in occa-sione dell’invio alle camere a gas dei suoi compagni, nel giugno 1944, quan-do fu inserito, anche qui del tutto ca-sualmente, in un gruppo di giovani de-stinati al lavoro e passò così davanti alle camere a gas senza entrarvi. È un libro di grande valore il suo, un testo che potremmo definire straordina-rio. Questo studioso che non ha mai voluto leggere memorie o romanzi né vedere film sulla Shoah si esprime qui in un linguaggio metaforico e onirico di straordinaria bellezza. Protagonista as-soluta di questi paesaggi è la Morte, e Auschwitz è la Metropoli della Morte. Perché il bambino, e poi più tardi l’adulto che continua a ripensare questa Metropoli, sa bene che la Morte è qui un destino a cui non si può sfuggire, da cui invano nei suoi sogni successivi di fuga prova a liberarsi: ogni volta, un al-toparlante chiama il suo nome e lo ri-porta a morire. Anche se sempre lui sa che è destinato anche a sopravvivere, in un paradossale incontro tra salvezza e morte. Quelle scale che portavano alla camera a gas non aveva dovuto scender-le allora, nei giorni della “gloria” del campo, e tenterà di scenderle davvero senza riuscirci in un successivo ritorno ad Auschwitz. Riuscirà invece a scen-derle in un sogno, dove un dottor Men-gele stranamente normale farà da guida turistica a un gruppo di ebrei israeliani in visita ad Auschwitz. Un Mengele che era «sempre stato là». Ma Birkenau è anche il luogo in cui il maestro di musica del “campo fami-glia” fa cantare ai bambini l’Inno alla Gioia di Beethoven, a poche centinaia di metri dai crematori. In cui il ragazzo può guardare il cielo azzurro e sentirsi felice e credere poi di non aver mai vi-sto in tutta la sua vita un cielo così bel-lo. Da dove sua madre si avvia verso un altro campo, dove partorirà un altro fi-glio e troverà la morte, senza voltarsi indietro a guardare un’ultima volta il suo bambino. Dove un compagno di prigionia morente può lasciargli Delitto e castigo e raccontargli di musica e poe-sia, e dove una poetessa ventenne rima-sta senza nome può consegnare a un kapò sulla soglia della camera a gas, perché sopravvivano, tre sue bellissime poesie scritte nel campo. Un mondo in cui i prigionieri continuano a far studia-re i bambini, a suonare, a recitare anche quando diventa chiaro a tutti che quelle condizioni privilegiate sono a tempo e stanno inesorabilmente per scadere. Il saggio apposto in fondo al libro, esempio di alto livello della sua scrittu-ra di storico, non ha solo la funzione di spiegare in termini chiari il “campo fa-miglia” o di interpretarne le ragioni. È anche, attraverso la sua scrittura tanto diversa, un modo di far risaltare la scrit-tura soggettiva dei Paesaggi, di trascen-d e re , come l’autore stesso dice, la storia. La storia è là, certo, tutto è vero, ma quella verità non basta a rispondere ad alcune di quelle domande, a toccare con mano il senso del dolore, il “lutto di D io”, la terribile consapevolezza della morte. Kulka ha preferito non mescola-re queste due diverse scritture, ma acco-starle l’una all’altra, tenendole separate, quasi a voler mantenere uno spazio au-tonomo all’espressione della sua perso-nale mitologia nei dialoghi con se stes-so, nei sogni e infine nella scelta delle immagini, una cinquantina di disegni e foto in bianco e nero che illustrano in maniera insuperabile questo testo e la Morte che ne è protagonista. Un modo forse per dire che non c’è modo di far parte, nel rigore del mestiere di storico, a quello spazio non rappresentabile della Shoah su cui tanto ci si affanna, ma che forse i versi della poetessa assassinata, i disegni dei bambini e i suoi per-sonali incontri onirici con la Morte so-no in grado di rappresentare.

 

© Osservatore Romano - 7 aprile 2013