Sulla base di una comune eredità

Ecumenismo 12di ANDREA PALMIERI *

Dal 15 al 22 settembre 2016 ha avuto luogo a Chieti — su invito dell’arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte, membro della commissione, e con il sostegno della Conferenza episcopale italiana — la quattordicesima sessione plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Alla vigilia regnava un clima di attesa e di incertezza.
A distanza di quasi nove anni dall’ultimo documento della Commissione mista internazionale, molti desideravano che si giungesse alla pubblicazione di un nuovo testo che mostrasse che il dialogo teologico non si era arenato. Tuttavia, visto il risultato deludente delle ultime tre precedenti sessioni plenarie (Paphos 2009, Vienna 2010 e Amman 2014), ci si chiedeva se la bozza di documento, redatta nel corso della sessione plenaria di Amman e rivista dal Comitato di coordinamento della commissione riunitosi a Roma nel 2015, avrebbe ottenuto il consenso di tutti i membri. Nella riunione di Chieti, i cui lavori sono stati presieduti dall’arcivescovo di Telmessos, Iob Getcha, del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, e dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, erano presenti due rappresentanti delle quattordici Chiese ortodosse autocefale (fatta eccezione del patriarcato di Bulgaria, assente) e ventisei rappresentanti cattolici provenienti da diversi Paesi. Con il consenso di tutti i partecipanti (soltanto la Chiesa ortodossa di Georgia ha espresso il proprio dissenso su alcuni paragrafi), è stata decisa la pubblicazione del testo, che dal luogo dove si sono svolti i lavori verrà chiamato “Documento di Chieti”. Il testo, intitolato Sinodalità e primato nel primo millennio. Verso una comune comprensione nel servizio all’unità della Chiesa , contiene una presentazione condivisa da cattolici e ortodossi delle modalità con le quali sinodalità e primato si articolavano nella vita della Chiesa del primo millennio. In tal modo, il testo prosegue la riflessione sul tema del primato nella Chiesa universale, inaugurata con il documento dal titolo Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità , approvato nella sessione plenaria di Ravenna (2007), dove cattolici e ortodossi affermavano insieme, per la prima volta, la necessità di un primato al livello di Chiesa universale e concordavano sul fatto che questo primato spettasse alla sede di Roma e al suo vescovo, mentre riconoscevano ancora aperta la questione relativa alla modalità di esercizio del primato, ai fondamenti scritturistici e alle interpretazioni storiche. Il documento di Chieti, per la sua brevità (comprende solo ventuno paragrafi) e per il suo stile, per così dire, pragmatico, potrebbe apparire teologicamente povero. Tuttavia — attraverso alcuni riferimenti impliciti a principi teologici ampiamente trattati in documenti approvati in anteriori sessioni plenarie (si vedano, a esempio, le riflessioni sulla teologia trinitaria del documento di Monaco 1982 e sulla teologia eucaristica del documento di Bari 1987) — il testo mostra di radicarsi solidamente nelle fondamenta teologiche e sacramentarie dei precedenti documenti. Particolarmente evidente è il rapporto del documento di Chieti con quello di Ravenna. Il nuovo testo non solo riprende i temi centrali (la relazione di interdipendenza fra sinodalità e primato nella vita della Chiesa), ma ripropone la medesima struttura del testo antecedente. La definizione di sinodalità e di primato offerta nei numeri 3 e 4 del documento di Chieti riecheggia senza dubbio quella proposta in maniera decisamente più articolata dal documento di Ravenna. La triplice attualizzazione del rapporto tra sinodalità e primato a livello locale, regionale e universale, compiuta dal documento di Ravenna, è ripresa dal testo di Chieti con delle significative precisazioni. In quest’ultimo, infatti, si preferisce non parlare più di tre livelli, ma si si specifica che la triplice attualizzazione del rapporto tra sinodalità e primato si realizza nella Chiesa locale, nella comunione regionale delle Chiese e nella Chiesa universale. L’adozione di un linguaggio teologico più preciso per descrivere le molteplici espressioni della vita della Chiesa ha il grande merito di rendere più chiaro che tra le diverse realtà di Chiesa prese in esame esiste solo una debole analogia e che l’interdip endenza fra sinodalità e primato, indubbiamente presente in ciascuna delle tre realtà, si concretizza in forme molto diverse. Una novità di rilievo nel documento di Chieti rispetto al testo di Ravenna è quella di descrivere come l’interdip endenza tra sinodalità e primato si sia realizzata di fatto nelle strutture della Chiesa del primo millennio. La preoccupazione di attenersi strettamente ai dati storici del primo millennio pervade tutto il testo, nel quale si evita accuratamente di usare espressioni che si riferiscono piuttosto all’evoluzione del secondo millennio, quali a esempio primato di giurisdizione, autocefalia, eccetera. Gli aspetti della realtà ecclesiale del primo millennio vengono citati nel documento come mere testimonianze storiche senza aggiungere alcuna interpretazione di carattere dogmatico, sulle quali cattolici e ortodossi spesso divergono. Tutto ciò però non consente di definire il documento di Chieti come un testo esclusivamente storico. Assolutamente centrale nella dinamica di tutto il testo è l’affermazione presente nel numero 6, con la quale si sostiene la necessità di riflettere sulla storia, perché in essa Dio rivela se stesso, e si ricorda che la liturgia, la spiritualità, le istituzioni e i canoni della Chiesa hanno sempre una dimensione sia storica sia teologica. Se è vero che il primato appartiene all’essere della Chiesa così come è stata voluta da Dio, e non si fonda semplicemente su una mera opportunità pratica finalizzata al buon funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche, è altrettanto vero che lo sviluppo storico delle istituzioni ecclesiastiche non è privo di valore teologico. Poiché, per noi cristiani, il fatto che Dio si rivela nella storia è un dato di fede, dobbiamo saper cogliere i segni della sua presenza e della sua azione nella storia della Chiesa. Soltanto integrando l’approccio storico e quello teologico-speculativo è possibile individuare nella prassi, secondo la quale il primato della Chiesa di Roma era esercitato nel primo millennio, alcuni elementi non solo ispirativi ma normativi circa la modalità di esercizio di un primato universale che possa essere accettato oggi sia dai cattolici sia dagli ortodossi. In tale prospettiva, la parte più delicata del documento di Chieti è proprio quella che riguarda il rapporto tra sinodalità e primato nella Chiesa a livello universale (cfr. n. 15-19), perché tocca le questioni ecumenicamente più rilevanti. Si può facilmente comprendere la difficoltà con la quale la commissione abbia raggiunto un consenso su questo punto. La tematica in oggetto è al cuore stesso del contenzioso storico tra cattolici e ortodossi, soprattutto per come esso si è sviluppato nel secondo millennio. Il lavoro della Commissione mista internazionale è in qualche modo condizionato da secoli di dispute e polemiche sulla questione del primato del vescovo di Roma, nel corso dei quali le posizioni si sono radicalizzate finendo con l’a p p a r i re quasi inconciliabili. Tali posizioni radicali sono spesso ancora vive nella coscienza di una parte di pastori e fedeli, che, per questo motivo, guardano con grande sospetto il lavoro della Commissione mista internazionale. Evitando accuratamente di aggiungere una valutazione, il documento di Chieti registra il fatto che, tra il quarto e il settimo secolo, viene riconosciuto, e stabilito anche attraverso alcuni canoni dei concili ecumenici, un ordine fra le cinque sedi patriarcali, tra le quali la sede di Roma occupava il primo posto esercitando un primato di onore (cfr. n. 15). Inoltre, si afferma che, a partire dal quarto secolo, in occidente il primato del vescovo di Roma veniva compreso sempre più decisamente come una prerogativa legata al suo essere successore di Pietro, il primo degli apostoli. Il documento riconosce che questa interpretazione non fu mai adottata dalle Chiese di oriente, che su questo punto avevano una lettura differente della Scrittura e dei Padri (cfr. n. 16). Apparentemente, qui ci si trova di fronte a una divergenza sostanziale di interpretazioni, il cui riconoscimento non farebbe che ampliare la distanza che separa cattolici e ortodossi su tale questione. In realtà, il prendere atto da parte dei cattolici e degli ortodossi della coesistenza nel primo millennio di due diverse tradizioni che giustificavano diversamente il primato della sede di Roma e del suo vescovo, senza che ciò per molti secoli causasse una rottura della comunione tra le Chiese di oriente e occidente, è un significativo passo in avanti. Naturalmente, alcune questioni meritano di essere ulteriormente approfondite insieme da cattolici e ortodossi, in particolare quella del vero significato dell’espressione “primato d’onore ” nelle fonti del primo millennio e quella del fondamento scritturistico del primato di san Pietro nella letteratura patristica di oriente e occidente. Dopo l’affermazione del primato della sede di Roma, il documento di Chieti presenta sinteticamente le forme concrete di esercizio di tale primato nel primo millennio. Innanzitutto, nel numero 17 si ricorda la prassi di nominare nei dittici liturgici i nomi dei patriarchi secondo il loro ordine. Ciò presuppone il diritto del vescovo della prima sede di presiedere nel caso di concelebrazione liturgica tra i vescovi delle principali sedi. In secondo luogo, è riconosciuto che il vescovo di Roma ha esercitato un ruolo essenziale di cooperazione per la ricezione dei concili come ecumenici attraverso il suo accordo, espresso per mezzo dei suoi legati o post factum (cfr. n. 18). Infine, è menzionata la possibilità della sede di Roma di ricevere appelli provenienti anche da Chiese dell’oriente, non giudicando in merito alla questione dell’appello ma rimandando il giudizio di merito al sinodo delle Chiese vicine di colui che si riteneva ingiustamente condannato dal proprio sinodo, così come regolato dal canone 3 del concilio di Sardica (cfr. n. 19). È importante sottolineare che il documento di Chieti afferma con chiarezza che queste prerogative della sede di Roma erano esercitate dal vescovo di Roma sempre nel contesto della sinodalità, ossia in stretta relazione con i vescovi delle altre sedi principali del primo millennio oppure insieme al sinodo della Chiesa di Roma (cfr. n. 17-19). In tal modo, si riconosce che anche nella Chiesa a livello universale durante il primo millennio la sinodalità e il primato erano legati da un nesso inscindibile. In conclusione, il documento presenta la comune eredità dei principi teologici, delle istituzioni canoniche e della pratica liturgica del primo millennio come necessario punto di riferimento e fonte di ispirazione per il superamento della divisione esistente tra cattolici e ortodossi (cfr. n. 20-21). Il primo millennio, dunque, non è visto come “l’età d’o ro ” alla quale tornare. Questo sarebbe un obiettivo ingenuo e irrealizzabile. La vera sfida che attende i cristiani di oriente e occidente è quella di capire come, sulla base di questa eredità comune, sia giusto esercitare oggi e in futuro sinodalità e primato, rispettando la loro reciproca interdipendenza. Da questo punto di vista, lo studio realizzato a Chieti dalla Commissione mista internazionale costituisce un significativo passo in avanti in quanto favorisce una più profonda riflessione sui temi della sinodalità e del primato, e della loro reciproca relazione, sia nel mondo cattolico che nel mondo ortodosso. In entrambi i casi, alcune recenti esperienze concrete, come la celebrazione del concilio panortodosso con tutte le difficoltà della vigilia, da un lato, e l’imp egno profuso da Papa Francesco per ridare nuovo impulso alla sinodalità all’interno della Chiesa cattolica, dall’altro, mostrano quanto sia importante e urgente tale riflessione.

*Sotto-segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani