Li dobbiamo aiutare a ogni costo · L’organizzazione segreta del cardinale Pietro Boetto in difesa degli ebrei ·

card boetto genova«Sono degli innocenti, sono in grave pericolo, li dobbiamo aiutare anche con nostro disagio». Queste parole del cardinale Pietro Boetto (1871-1946), gesuita, arcivescovo di Genova (1938-1946), rivolte al suo giovane segretario, don Francesco Repetto (1915-1984),

nell’autunno 1938, sono la più efficace sintesi dell’opera svolta dal presule a favore degli ebrei, impegno ora riconosciuto dallo Yad Vashem — l’ente nazionale per la memoria della Shoah di Israele a Gerusalemme — che lo ha recentemente annoverato Giusto tra le nazioni.

L’esperienza pastorale a Genova del cardinale Boetto corrisponde al periodo più triste per il mondo e gli ebrei. Già nell’enciclica Mit brennender Sorge (Con viva preoccupazione) che Pio XI scriveva in lingua tedesca ai vescovi di quella nazione il 10 marzo 1937, venivano denunciate le dottrine razziste divulgate dal nazionalsocialismo contrarie alla fede cristiana. Purtroppo una certa linea di pensiero parve prevalere anche in Italia. Dopo la pubblicazione del Manifesto della razza (15 agosto 1938), il 5 settembre dello stesso anno venne emanata la legge razziale (n. 1390), cui seguì la legge numero 1728 (17 novembre 1938) riguardante le disposizioni per la difesa della razza italiana.
A Genova il 13 marzo 1938 moriva il cardinale Carlo Dalmazio Minoretti. Apparve insolita l’immediata nomina del successore avvenuta il 17 marzo da parte del Pontefice e che vide il successore fare il proprio ingresso in diocesi l’8 maggio successivo. Il motivo: Pio XI desiderava che il nuovo pastore fosse insediato prima della visita di Benito Mussolini alla Superba prevista per il 14 maggio. Cominciava in questo modo il servizio del gesuita nella diocesi ligure.
Non è questa la sede per illustrare la multiforme attività pastorale di Pietro Boetto (nuove parrocchie, formazione religiosa e catechesi, istituzione del Fondo di assistenza per il clero, dell’Auxilium per l’aiuto alle famiglie durante la guerra, dell’Opera Nazionale di assistenza religiosa e morale agli operai): basti ricordare che egli fu davvero vicino con l’umanità e il coraggio sapiente della fede ai suoi figli e seppe, continuando quanto magistralmente iniziato dal suo predecessore, formare un gruppo di sacerdoti collaboratori che avrebbero continuato per tutto il secolo, anche se in maniere diverse nel tempo, quanto allora iniziato.
A Genova nel 1939 risultavano residenti 1816 ebrei (di cui 389 stranieri), dei quali 1350 iscritti alla comunità israelitica che aveva allora come rabbino capo Riccardo Pacifici, che sarebbe poi morto ad Auschwitz. Già nel biennio 1933-34 era sorto a Milano un comitato per l’assistenza ai profughi ebrei che affluivano dall’Europa centrale sciolto nel 1938 a seguito delle leggi razziali. La nuova direzione dell’Unione delle comunità israelitiche italiane elesse presidente Dante Almansi (che a Roma si sarebbe occupato delle attività dell’Unione) e vicepresidente l’avvocato Lelio Vittorio Valobra, che si sarebbe occupato della Delegazione assistenza emigranti ebrei (DelAsEm). Fondata il 1° dicembre 1939, l’organizzazione con sede a Genova si curava della sistemazione degli ebrei profughi in paesi stranieri, e li assisteva nei campi di concentramento istituiti in Italia dopo l’entrata in guerra. Essa nel 1942 contava ventisette rappresentanze e centosettanta corrispondenti. Quando la situazione si aggravò fu proprio lui ad andare a parlare con don Repetto per sapere se il cardinale avesse accettato di dare assistenza agli Ebrei.
Ecco la testimonianza di monsignor Repetto nel discorso tenuto il 26 aprile 1982 in occasione della consegna da parte dello Yad Vashem della medaglia d’oro di Giusto fra le nazioni: «Mi recai dal cardinale. La situazione era assai gravosa per l’arcivescovado: ci si era addossata l’assistenza ai sinistrati; si assumevano le pratiche dell’Ufficio vaticano per le notizie dei prigionieri di guerra. In piedi di fronte allo scrittoio del cardinale gli riferii, e con studiata indifferenza (perché le mie incombenze erano soltanto quelle esecutive di un piccolo segretario) chiesi se si doveva accettare la domanda della DelAsEm, oppure declinarla. Il cardinale si raccolse un poco, ma non stette molto a pensare. Disse: sono degli innocenti, sono in grave pericolo, li dobbiamo aiutare anche con nostro disagio».

Da quel momento si aggiunse alle altre attività di assistenza quella di portare gli aiuti finanziari della DelAsEm in tutta l’Italia centro-settentrionale ove si trovavano comunità di ebrei.

di Claudio Paolocci

© Osservatore Romano  29.7.2017