Egitto Che fine ha fatto la primavera araba L'Osservatore Romano

araba bandiere MO(Roberto Righetto) Che fine ha fatto la primavera araba? Veramente i paesi mediterranei che nel 2011 videro esplodere moti di protesta (da qualcuno assimilati al Sessantotto) in nome della democrazia, sono destinati a rimanere governati da regimi autoritari, senza poter conoscere le libertà di pensiero, stampa e religione caratteristiche dello Stato di diritto? A queste domande la maggior parte dei politologi che avevano salutato con grande favore quelle manifestazioni risponde ormai in maniera sconsolata, dando per scontato che nelle nazioni a maggioranza islamica è impossibile pensare alla realizzazione di democrazie compiute.
A parte Tunisia e Marocco, ove anche sui diritti civili e delle donne in particolare si sono registrati passi avanti significativi, per il resto prevale un corale pessimismo, aggravato da quanto accade in Siria e in Turchia.
Aiutano a comprendere meglio cosa sta accadendo in quell’area alcuni film appena usciti in Italia. A cominciare da Omicidio al Cairo di Tarik Saleh, regista e giornalista svedese di origini egiziane. Siamo nel gennaio 2011 e nella capitale egiziana, oltre alla rivolta di piazza Tahrir, di cui si avvertono i primi segnali e che porterà alla caduta di Mubarak, avviene un fatto di sangue in cui sono coinvolti una famosa cantante (la vittima) e un noto palazzinaro, deputato in parlamento (il probabile colpevole).
Un ufficiale di polizia è incaricato di indagare e a poco a poco si avvicina alla verità. Ma a parte l’inchiesta, il clou del film è la denuncia della corruzione, che vede i poliziotti invischiati nel sistema di protezione dei commercianti, come nella criminalità mafiosa. Lo stesso Nouredin, il protagonista, ne fa parte, ma passo dopo passo c’è in lui un moto di coscienza, forse perché scosso dalla rivolta contro il potere che tocca i suoi concittadini e i più giovani in particolare, forse perché si accorge della spietatezza di quell’apparato, basato appunto sull’intreccio fra politica e affari reso possibile da una polizia compiacente.
Il film, che si ispira a un assassinio avvenuto realmente nel 2008, è stato bloccato dalle autorità egiziane, tanto che la produzione ha dovuto spostare le riprese in Marocco. Vi sono scene terribili, in cui cittadini e persino poliziotti vengono torturati solo perché s’immagina siano coinvolti nelle fasi della trama. E va dato atto al regista di aver realizzato una prova d’autore che non solo fa vedere una pervasiva ingiustizia, ma delinea la via di una rivolta etica per il cambiamento.
Anche in un’altra pellicola, L’insulto del regista libanese Ziad Doueiri, il clima dominante sembra quello della violenza tra fazioni che ha dominato il paese nel passato recente. Tutto nasce da un episodio in sé insignificante che a Beirut fa sorgere una lite tra Yasser, capo di un cantiere di muratori, palestinese di fede musulmana, e Toni, un meccanico d’auto che fa parte delle milizie cristiane. L’escalation del litigio ben presto finisce per andare oltre la questione privata.
Si approda alle aule di giustizia, la vicenda diventa un caso politico ed esplodono manifestazioni di piazza che vedono musulmani contro cristiani. Sembra quasi di tornare ai tempi della guerra civile libanese, terminata nel 1990, ma che si svela tutt’altro che risolta negli animi della popolazione. Fino a che un colpo di scena in tribunale fa capire che alle spalle della rabbia di Toni c’è una tragedia vissuta da bambino nel villaggio cristiano dove abitava con la famiglia. Così Yasser e Toni capiscono che entrambi hanno torto e che è possibile giungere a una pacificazione: hanno alle spalle una storia di dolore che s’innesta nella sofferenza collettiva del Libano intero. Ferite ancora aperte con le quali occorre fare i conti per poter guardare a un futuro senza violenza in una nazione da sempre multiculturale e multireligiosa.


L'Osservatore Romano, edizione settimanale, 15-16 marzo 2018

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