Le differenze non devono diventare conflitto · Intervista al cardinale segretario di Stato sul viaggio in Myanmar e Bangladesh ·

myanmar bangladeshSulla questione dei rohingya «credo che la visita del Papa abbia certamente contribuito a cercare una soluzione. A livello certo di principi. Ma sono i principi fondamentali da cui derivano le applicazioni concrete, che potranno dare pace e stabilità alla regione» e sulla cui base

«si può davvero tentare di trovare formule per risolvere il dramma che si sta attualmente vivendo al confine tra Myanmar e Bangladesh». Lo sottolinea in questa intervista all’Osservatore Romano il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, che come di consueto ha accompagnato il Pontefice nel recente viaggio in Asia, in due nazioni in cui sono due donne a dominare la scena politica.

Era mai stato in questi due Paesi?

Un momento dell’incontro con i profughi rohingya in Bangladesh (1 dicembre)

Non ne avevo mai avuto occasione. La mia conoscenza dei paesi dell’Asia era sostanzialmente limitata al Vietnam, dove sono stato parecchie volte da sottosegretario per i Rapporti con gli Stati in occasione dei negoziati tra governo e Santa Sede. E poi ultimamente si è un poco ampliata come segretario di Stato, grazie ai viaggi con il Santo Padre in Corea, nell’agosto 2014, e in Sri Lanka e nelle Filippine, nel gennaio 2015.

Accompagnando il Pontefice ha avuto modo di incontrare le leader politiche di entrambe le nazioni. Ha avuto colloqui con Aung San Suu Kyi e Sheikh Hasina?

In questi viaggi internazionali di solito è previsto solo l’incontro del Papa con il capo dello Stato e il primo ministro del paese ospitante. Qualche volta, si svolgono contemporaneamente colloqui tra la delegazione che è al seguito del Papa e una delegazione della nazione visitata, guidata dal vicepresidente o dal ministro degli Affari esteri. In questo caso non era in programma.

Cosa ne pensa del fatto che siano due donne a dominare la scena politica in paesi a maggioranza rispettivamente buddista e musulmana?

Ciò può effettivamente destare qualche sorpresa, ma dimostra il valore di queste due premier. Io conoscevo di più Aung San Suu Kyi, per la sua nota vicenda, e meno Sheikh Hasina, della quale però mi hanno parlato in molti in Bangladesh in termini elogiativi. Si tratta di due donne che si sono fatte apprezzare per il contributo che hanno dato ai rispettivi paesi, riscuotendo la fiducia dei loro concittadini. Della prima basti ricordare la storia, quanto ha fatto e quanto sofferto per la democrazia in Myanmar; e quanto sta ancora facendo, nonostante le non poche difficoltà che incontra e che vanno capite. Sheikh Hasina, da parte sua, si è impegnata in un processo di sviluppo del Bangladesh, soprattutto nel superamento della povertà estrema, ottenendo risultati notevoli, che sono stati riconosciuti anche dalle organizzazioni internazionali. Entrambe, dunque, hanno dato un apporto positivo alla vita del loro paese ed è questa, penso, la base della loro leadership.

Secondo i media questo è stato il viaggio del Papa per il popolo rohingya. Ritiene che il recente accordo sui profughi tra Myanmar e Bangladesh, anche alla luce della visita del Pontefice, accelererà il processo di soluzione della crisi in atto?

Ho notato una grande preoccupazione, soprattutto in Bangladesh, per questa situazione. In parecchi discorsi, sia delle autorità, sia di rappresentanti della società civile, sia di esponenti della Chiesa, è stata esplicitamente menzionata (ma lo ha fatto anche la signora Aung San Suu Kyi). Ora è difficile fare pronostici, ma credo che la visita del Papa abbia certamente contribuito a cercare una soluzione. A livello certo di principi. Ma sono i principi fondamentali da cui derivano le applicazioni concrete, che potranno dare pace e stabilità alla regione: cioè il principio del rispetto dei diritti umani, a cominciare dal diritto di cittadinanza, di nazionalità, e il principio del rispetto e della valorizzazione di tutti i gruppi etnici. Papa Francesco ha molto sottolineato questi due aspetti, insistendo sull’idea, a lui cara, che le differenze non devono diventare contrapposizione e conflitto. Credo che sulla base di questi principi si può davvero tentare di trovare formule per risolvere il dramma che si sta attualmente vivendo al confine tra Myanmar e Bangladesh.

Quali aspetti pastorali si possono rimarcare nelle due tappe della visita?

Il Papa l’ha detto fin dall’inizio che lo scopo principale del suo viaggio era incontrare le Chiese locali, tenendo conto che sono Chiese di “minoranza”: in Bangladesh ci sono 350 mila cattolici su una popolazione di 160 milioni di abitanti, in Myanmar sono 700 mila su 55 milioni. Queste visite del Papa, come successore di Pietro e pastore della Chiesa universale, servono proprio a dare incoraggiamento, fiducia e slancio a queste Chiese, che si trovano a vivere situazioni non sempre facili, proprio per la loro condizione di minorità. E i cattolici hanno percepito questa vicinanza, questo amore del Papa nei loro confronti, e ne sono stati confortati e rinvigoriti. Il Pontefice ha poi sottolineato in entrambi i casi, sia con i buddisti a Yangon, sia con i musulmani a Dhaka, l’importanza del dialogo interreligioso e l’importanza per i cristiani di favorire l’armonia tra le diverse componenti religiose che sono presenti nei paesi, come pure di essere fermento vivo e positivo per il bene comune della società, per la costruzione di una convivenza pacifica e per lo sviluppo delle due nazioni.

Ci sono stati incontri con persone o situazioni che l’hanno colpita in modo particolare?

Mi vengono in mente due episodi. Il primo durante l’incontro interreligioso di venerdì nella capitale del Bangladesh, quando ha parlato il rappresentante della società civile: ha detto una bella cosa che mi ha molto impressionato, ricordando che a volte le minoranze sono oggetto di sopruso e di maltrattamento, mentre invece è minoranza chi abusa e maltratta, perché in fin dei conti sono loro le persone perdenti. Il secondo è avvenuto sabato mattina davanti alla chiesa del Santo Rosario a Dakha, dove ho avuto modo di scambiare qualche parola con un fedele che mi ha raccontato un po’ la sua storia. Mi ha confidato che aveva detto ai suoi datori di lavoro musulmani: «Viene il Papa. O mi lasciate andare, o sono disposto a perdere l’occupazione, ma non l’occasione di poterlo vedere, perché sarà l’unica della mia vita». Questo è il segno di una fede forte, di una grande testimonianza di appartenenza alla Chiesa da parte di questi cristiani.

Quale ricordo porta a casa?

Mi ha colpito l’amabilità degli asiatici, che si manifesta in una grande gentilezza, in un grande senso di accoglienza e di rispetto nei confronti degli ospiti. E poi ho sperimentato la bellezza della Chiesa nella sua multiformità: soprattutto nelle celebrazioni abbiamo visto la fede di questa gente, che si esprime attraverso la preghiera e una dimensione mistica e spirituale in linea con tutta la tradizione orientale.

di Gianluca Biccini


© Osservatore Romano    5.12.2017