Da Abu Dhabi un documento che restituisce speranza all’uomo

papa e imam 37d8bd7a97fd9d74d395433c2404a04bNon vi nascondo che considero la Dichiarazione di fraternità che Papa Francesco e il grande imam Ahmad al-Tayyeb hanno firmato ad Abu-Dhabi il 4 febbraio 2019 un documento storico dal punto di vista della civiltà umana. Si colloca, ai miei occhi, sullo

stesso piano della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 e della Dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948, entrambe proclamate a Parigi.

Essere cristiano ortodosso nel Levante si dice in arabo roum o roum ortodosso cioè “romano”, senza dubbio nel senso di “romano d’Oriente”, nell’orbita culturale e liturgica della Nuova Roma, Costantinopoli, che ha voluto, con la forza della disperazione, incarnare fino in fondo il vecchio cosmopolitismo delle città del Mediterraneo. Permettetemi di evocare il ricordo di una mia antenata, la cui famiglia era sfuggita ai massacri nella regione di Edessa e Dyarbakir, in Anatolia, durante la prima guerra mondiale. Il funzionario francese che registrava i rifugiati le chiese: «Che cosa siete?». Lei rispose in francese, che parlava: «Sono roum», romana. Il funzionario le rispose: «Dunque siete greca». E l’iscrisse insieme alla sua famiglia sotto la particolare categoria “greco ortodossa” che traduce così nelle lingue europee l’identità “roum-ortodossa”. Fino alla sua morte questa antenata evocava dolorosamente tale ricordo che l’aveva, in qualche modo, spogliata di un’identità universale, la romanità, che era sua, per conferirle un’identità nazionale particolare nella quale non si riconosceva. Bisogna ricordare che dall’editto di Caracalla del 212 tutte le genti rivierasche del Mare Nostrum si riconoscevano in questa romanità. Fino al 1453 e oltre, quelli che si chiamano “bizantini” qualificavano se stessi come romaioi o “romani”. Tale fu la genialità del vecchio cosmopolitismo del Mediterraneo. Attualmente non è che l’ombra di se stesso. I popoli e le nazioni sembrano trascinati dalla malattia identitaria in una discesa agli inferi che rischierebbe di mettere fine alla civiltà, come sembra temere Amine Maalouf nel suo ultimo saggio.

Tra il 26 agosto 1789, data della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, e il 4 febbraio 2019, data del Documento di Abu Dhabi sulla «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», sono trascorsi duecentotrent’anni, ossia l’equivalente di quello che Gilbert Durand chiama un “bacino semantico” per parlare del flusso del senso nell’immaginario collettivo delle società umane. Tale scorrere delle acque, le immagini portatrici di senso, venute da differenti rivoli, finiscono per confluire verso delle storie comuni che a loro volta si dividono in corsi secondari per confluire di nuovo in un fiume possente ed esaurirsi nell’immensità dell’oceano. È legittimo porre, fianco a fianco, i tre documenti del 1789, del 1948 e del 2019. Tutti e tre hanno per orizzonte illimitato l’oceano della lunga storia della civiltà. Nel 1789 l’Assemblea nazionale costituente francese proclamava la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino «alla presenza e sotto gli auspici dell’Essere supremo», preservando così le preoccupazioni trascendenti e dotando i diritti naturali proclamati di un fondamento metafisico. Nasceva il “soggetto della modernità” con un “ego” che, poco a poco, si vedrà trascinato in un faccia a faccia polemico con un “io” divino. Le ideologie collettiviste finiranno per appropriarsi di questo “ego” umano, svuotarlo di ogni sostanza, diluendo l’individuo nella massa gregaria dell’“io” sociale divinizzato, quello del male identitario. È per questo che, nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti umani non fa alcun riferimento a un fondamento metafisico dei diritti che proclama, se non per il termine “dignità”. In tal modo è stata inaugurata l’era del «dramma dell’umanesimo ateo», come lo definisce Henri de Lubac, quello delle violenze contemporanee del radicalismo delle “religioni secolari” così caratteristiche della trappola dell’ottimismo storico. Le terribili fosse comuni del XX secolo e gli incendi apocalittici del XXI, con i loro millenarismi secolarizzati, i loro messianesimi atei, la loro estrema spiritualizzazione del politico, hanno portato alla “disincarnazione di ogni speranza”. Il naturalismo radicale di una modernità prigioniera di se stessa ha inaugurato la trasformazione delle dottrine della salvezza in ideologie della storia, conducendo l’umanità, nell’epoca della globalizzazione, a rassegnarsi al fatto che «la ragione umana si inabissa nel nichilismo». Noi abbiamo raggiunto il delta del fiume formato dal bacino semantico del XVIII secolo. Quale oceano si apre davanti a noi? Quello del nulla o quello della vita in un mondo che è il nostro e di cui siamo responsabili?

La Dichiarazione di Abu Dhabi giunge tempestivamente, per restituire speranza all’uomo. Sarebbe riduttivo farne un momento del dialogo islamo-cristiano. Questo documento va ben al di là del fatto religioso. Inaugura un’era nuova, quella dell’opposizione formale alla “guerra santa” del nichilismo contemporaneo attraverso una santa alleanza nella quale le due più grandi religioni del mondo dicono chiaramente di situarsi nell’ambito della fraternità umana. Si annuncia che le religioni firmatarie esistono per servire l’unica famiglia umana, senza tentare di irreggimentare i suoi membri in uno specifico sistema religioso. Servirà almeno una generazione per vedere gli effetti di questa inversione rivoluzionaria dell’espressione religiosa dove il proselitismo tradizionale muta con compassione e solidarietà in favore della giustizia e della solidarietà, senza tener conto delle credenze di ciascuno, non importa chi. Questa dichiarazione dà un duplice fondamento ai principi che proclama: Dio e l’Uomo riconciliati anche se l’uomo non aderisce ad alcun sistema religioso. La religione, in questo contesto, si fa umile. Si presenta al servizio di qualsiasi uomo, non il contrario.

Per l’Oriente, tanto musulmano che cristiano, questo significa che in una patria la religione non è più il fondamento dell’unità politica. Questo perché il discorso, in particolare del grande imam di al-Azhar, ha insistito sul rifiuto del concetto di “minoranza”, a favore di quello di “cittadino”. L’odierna linea di divisione nell’Oriente è tra il vivere insieme in quanto cittadini e la coesistenza tra minoranze alleate o beneficiarie di una protezione straniera. È giunta l’ora di scegliere. Il nichilismo e il suo alter-ego, l’identitarismo, non hanno ancora detto l’ultima parola. Ricordo che nel 2017 la dichiarazione di al-Azhar sulla cittadinanza aveva insistito sul fatto che in ciascuna delle nostre patrie arabe tutte le componenti della società, musulmane, cristiane e di altri, formano una sola nazione. Ad Abu Dhabi si è andato oltre, parlando (non più di altri, ma parlando) espressamente di non credenti.

Il Documento sulla fratellanza umana ha fatto esplodere lo spazio del Mediterraneo e della sua tradizione cosmopolita. Questo spazio si estende oggi dalle rive dell’Oceano atlantico a quelle dell’Oceano indiano e del Golfo arabo-persico. Nel Mediterraneo la città di Beirut è ancora viva, quale città aperta. La maggior parte delle città del Levante sono vittime del crimine di urbicidio provocato dalle guerre identitarie. In questo genere di conflitto è la città stessa che diviene un nemico da distruggere. Lo spazio urbano viene allora territorializzato in zone d’influenza dove si esercita il potere dei signori della guerra identificati con tale gruppo, tale confessione, tale religione. La città si ruralizza. Ma Beirut non è ancora morta. Il Libano resiste ancora. La nostra resilienza, nel senso nobile di debito di vita che circola tra tutti e ciascuno, è ancora attiva malgrado le nostre tragiche difficoltà. Durante la guerra civile, tra le rovine urbane, non sono sparite le comunità, ma la città stessa. Tuttavia l’urbicidio che viene prodotto da ogni guerra civile non ha annientato il desiderio di essere insieme che traduce questa etica del dono di cui parla Henri Maus e che è il primo motore (o motore immobile) dell’urbanità che costituisce la porta d’accesso alla cittadinanza.

Coscienti di tutto questo, noi siamo fieri di vedere che il “Libano-messaggio” evocato da Giovanni Paolo II è arrivato oggi sulle rive del mar d’Arabia. Tra le righe di diverse dichiarazioni dell’università di al-Azhar si può scorgere questa libanesità, oggi in situazione così critica, difficile. Lo stato libanese è un caso unico al mondo dove musulmani di ogni obbedienza e cristiani di ogni obbedienza vivono insieme come partner nella gestione della medesima cosa pubblica e nella condivisione del potere. La sua democrazia ha optato per una forma di laicità che distingue le sfere politica e religiosa attraverso la coabitazione tra un ordine giuridico nazionale e gli ordini giuridici comunitari. Questo si traduce nel nostro testo costituzionale con una doppia legittimazione dei poteri: la legittimità del contratto sociale tra individui e la legittimità del patto contrattuale tra musulmani e cristiani.

Il 19 marzo scorso, alla festa patronale del mio ateneo, il rettore, padre Salim Daccache, gesuita, ha annunciato che l’Université Saint-Joseph de Beyrouth porterà avanti l’opera incompiuta di due grandi intellettuali che ci hanno lasciato, l’anziano rettore, padre Selim Abou, e Samir Frangieh. Prima delle loro recenti scomparse avevano messo in cantiere il progetto di un’antologia del vivere-insieme e delle trappole che lo minacciano, al fine di mettere a disposizione delle giovani generazioni uno strumento storico che permetta loro di tenere presenti nella memoria i concetti principali che hanno fatto il Libano. Daccache mi ha fatto il grande onore di affidarmi il coordinamento di questo progetto. È nel contesto preparatorio di questo progetto che Samir Frangieh aveva lavorato con un gruppo di amici a un documento intitolato Appello di Beyrouth per una Carta di un Mediterraneo del vivere insieme.

Io stesso ho letto questo appello a Ginevra presso la sede del sindacato della stampa. Permettetemi di leggervi qualche estratto: «Davanti alla violenza inaudita che si scatena contro l’uomo e la sua dignità, in Oriente e altrove nel mondo; constatata la responsabilità del terrorismo di stato nel Medio oriente, in particolare, che ha preparato il terreno a un terrorismo islamista-jihadista che si propaga dal 2014; prendendo atto della crescita di sussulti identitari, di intolleranza, di discriminazione, di rifiuto dell’Altro in tutto il Mediterraneo e oltre; coscienti del valore inestimabile del modello pluralista del vivere-insieme, che i popoli del bacino mediterraneo hanno saputo realizzare lungo i secoli, attraverso le loro culture e i loro modi di vita; forti dell’esperienza del modello libanese del vivere-insieme all’interno del quale si associano istituzionalmente, nella gestione dello Stato e nell’esercizio del potere, musulmani e cristiani, ma dove ugualmente, fatto unico nel mondo musulmano, sunniti e sciiti sono ugualmente associati nella gestione dello stesso Stato; constatando i limiti delle azioni militari condotte contro il terrorismo islamico nel mondo arabo, e particolarmente nel Levante; davanti ai rischi di sbandamento che possono comportare le misure di sicurezza che si attuano progressivamente e che potrebbero minacciare i diritti fondamentali dell’uomo; noi, firmatari di questa petizione, chiamiamo tutti i moderati delle due rive del Mediterraneo che condividono la nostra visione a unirsi a congresso per creare insieme le basi di una “Carta di un Mediterraneo del vivere-insieme” e dar vita a un osservatorio». Beirut, 23 maggio 2016.

di Antoine Courban

© Osservatore Romano - 15 - 16 aprile 2019