«Ho bisogno di credere» - Fellini - Rimini (+ film)

fellini rimini«Ho bisogno di credere» è il titolo del convegno svoltosi  a Rimini il 10 ottobre sul rapporto tra  Fellini e il sacro, prima tappa di un itinerario che si concluderà con una seconda sessione  a Roma presso la Pontificia Università Salesiana il 24 di questo mese. Questo convegno è parte  di un progetto di ricerca voluto e sostenuto dalla Facoltà di Scienze della 

Comunicazione sociale della Pontificia Università Salesiana  e all’Istituto Superiore per le Scienze Religiose di Rimini. Come frutto del lavoro svolto è già disponibile il volume a cura di Davide Bagnaresi, Guido Benzi e Renato Butera, Fellini e  il sacro. Studi e testimonianze , (Roma, Las, 2020, pagine 218, euro 19) che raccoglie numerosi contributi di esperti e testimoni relativamente a un tema inedito, che riguarda l’approfondimento di una delle figure più importanti del cinema del xx  secolo.

Nella vulgata che si è imposta in questi anni e nell’immaginario collettivo, infatti, la figura di Fellini è associata alla cultura godereccia di impianto riminese  e romano, fatto di donne procaci, racconti grotteschi  e feroci critiche  alla Chiesa. Così è ad esempio per l’uso dell’aggettivo felliniano, che a tutto si può applicare meno che  alla dimensione religiosa.  Il convegno in questo senso ha inteso bilanciare la valutazione del grande regista in merito al suo rapporto con il religioso. Il lavoro si è sviluppato in due direzioni. La prima,  di carattere strettamente biografico, ha inteso attirare l’attenzione su come l’uomo Fellini si è posto nei confronti della religione.

Il titolo del convegno «Ho bisogno di credere» fa riferimento  ad una frase  di Fellini riportata dall’amico Sergio Zavoli in una delle sue ultime interviste  rilasciata l’anno scorso e confluita  in un docufilm realizzato dagli studenti dell’Università Salesiana. Questa frase  testimonia l’intimo bisogno di Fellini di avere un rapporto diretto con la religione cattolica, che fa parte del background  famigliare del regista riminese, ma anche di un suo percorso personale.

Il secondo filone di approfondimento va invece sull’analisi più puntuale delle sue opere cinematografiche. Sembra tornato d’attualità il dibattito suscitato nel mondo ecclesiale all’uscita di film come La dolce vita  (1960), che accese un approfondito confronto, che vide su fronti contrapposti cardinali del calibro del genovese Siri e del milanese Montini. Maggiore consenso invece hanno raccolto opere evangeliche di prima grandezza, come la cosiddetta «trilogia della grazia» comprendente La strada  (1954), Il bidone  (1955) e Le notti di Cabiria  (1957). Anche se non esplicitamente, in queste opere ci sono figure evangeliche, vere e proprie Imago Christi  di cui l’emblema è certamente Giulietta Masina, o meglio i personaggi da lei interpretati come la Gelsomina  de La strada  o la Cabiria dell'omonimo film. A giudizio di tutti gli esperti che hanno condotto la ricerca,  queste figure ripropongono implicitamente ma anche autorevolmente momenti essenziali del mistero cristiano, come la capacità di amare fino al sacrificio di sé, come fa Gelsomina nei confronti del rude Zampanò (Anthony Quinn), o la capacità di perdonare il traditore come fa Cabiria nei confronti di Oscar (Francois Periér), il perfido falso amante che l’ha sedotta solo per ucciderla e prenderle i risparmi di una vita.

Sono i molteplici volti della relazione di coppia e del  matrimonio, un  tema che ha sempre affascinato il maestro: «Nei miei film ho avvertito tante volte  l'esigenza  di rappresentare la degenerazione, la caricatura del rapporto matrimoniale. Che invece è problematico, il più problematico di tutti. E profondamente individuale. Non si può regolare con norme collettive, con usi imposti dal di fuori, a forza di tabù. Dovrebbe essere proibito sedersi sul matrimonio. Tanti di noi invece soggiacciono passivamente  alla legge di natura, deformata negli usi correnti, e si lasciano succhiare e inghiottire dal matrimonio trascurandone lo scopo più alto, unico: il tentativo di realizzare una vera unione».

Nella stessa linea, più di un autore ha sottolineato come siano presenti continui riferimenti anche nelle altre opere di Fellini al sacro e al religioso, come segnalato ad  esempio dalla presenza costante di figure angeliche, e poi i santuari, le processioni, il rapporto con il miracolo ed anche la critica feroce ad un certo modo di essere degli uomini di chiesa, giocati più sull’esteriorità che sulla sostanza della loro missione. Si possono ritrovare in alcune scene che all’epoca fecero scandalo, come le sfilate di moda ecclesiastica in Roma  (1972), una sorta di anticipazione della critica severa che pontefici come Benedetto xvi  e Francesco  hanno mosso alle deviazioni di alcuni ecclesiastici.

Un terzo fronte che intercetta la sfera religiosa è il più ampio tema della ricerca del senso della vita, che emerge con prepotenza in alcuni dei capolavori indiscussi del maestro riminese, come La dolce vita  (1960) o Otto e ½  (1963).  Al vertice di questa ricerca, troviamo il  celebre dialogo presente ne La strada , in cui Gelsomina scopre nel confronto con il “matto” (Richard Basehart) che anche lei ha un senso nell’universo al pari di ogni elemento della natura. Così il Marcello e il Guido dei due capolavori felliniani, nella metafora del  giornalista che deve scrivere un libro ne La dolce vita   e del regista che deve fare un film in Otto e ½ , esprimono la ricerca di identità in un’epoca di smarrimento globale, in una sorta di rilettura dei personaggi pirandelliani anch’essi in cerca di autore. A differenza del drammaturgo siciliano però, in  tutti i film felliniani c'è un’apertura alla speranza, che li rende carichi di futuro oltre che di vangelo.           

di Marco Tibaldi
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