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Secondo attacco israeliano questo mese contro il principale porto commerciale della Siria

 

 
 
Il 28 dicembre alle 3,21 di notte, caccia F-16 israeliani hanno lanciato quattro missili da crociera sul porto di Latakia. L'attacco è stato massiccio e ha inflitto pesanti danni alle infrastrutture portuali e ingentissime perdite di container pieni di importazioni civili come: filati di cotone utilizzati nelle fabbriche di tessuti di Aleppo, pneumatici per auto, parti per auto, latte per neonati destinato alle farmacie e molti altri carichi commerciali civili.
L'incendio è infuriato per ore e fitte nuvole di fumo nero si sono alzate per tutta la giornata. Non sono stati segnalati morti civili, ma i vigili del fuoco hanno inalato fumo e gli abitanti delle case vicine sono rimasti leggermente feriti da schegge di vetro. L'ospedale privato di fronte al porto, il Nada Hospital, ha subito vetri rotti lungo la sua facciata. Ristoranti e caffetterie lungo la Corniche ovest hanno subito danni alle vetrate in una delle zone residenziali più belle di Latakia, di fronte al porto.
Il porto è utilizzato da aziende private per importare farmaci, generi alimentari e forniture per i residenti siriani che subiscono le sanzioni devastanti degli Stati Uniti e dell'Unione europea che impediscono l'importazione di materiali per la ricostruzione dopo 10 anni di conflitto armato.I generi alimentari distrutti durante l'attacco erano importati da aziende private. Questi commercianti stanno ora affrontando la rovina finanziaria. Molti di loro hanno lasciato il paese, ma coloro che sono rimasti hanno sofferto molto delle sanzioni americane ed europee che impediscono il trasferimento di denaro dalla Siria per pagare le spedizioni. Questi mercanti avevano assicurato l'approvvigionamento vitale della popolazione siriana. L'attacco israeliano ai container per il trasporto può indurre i commercianti a rinunciare a ordinare le forniture di cui hanno bisogno i residenti, come medicine e cibo, per paura di perdere il carico durante un attacco. Potrebbe essere parte di una strategia di assedio e blocco da parte di Israele.
Nel corso degli anni, Israele ha condotto centinaia di colpi su obiettivi in Siria, alcuni dei quali erano finalizzati al principale aeroporto della capitale, Damasco.

di Steven Sahiounie, giornalista e commentatore politico

 

AnalisiL'attacco israeliano in Siria e i colloqui di Vienna

 

Due giorni fa Israele ha lanciato diversi missili contro il porto siriano di Latakia, nel più massivo attacco di questa guerra non dichiarata e a senso unico, che vede i jet di Tel Aviv bombardare continuamente il Paese confinante e Damasco provare a intercettare gli ordigni nemici, ben sapendo che non può rispondere perché ne verrebbe incenerita.

I danni ingenti causati dal raid – tra l’altro è stato colpito anche un ospedale – e gli incendi divampati hanno fatto tornare alla memoria un’altra tragedia, quella dell’esplosione avvenuta nel porto di Beirut dell’agosto del 2020, orrore che rischia di ripetersi se non si mette un freno all’escalation.

Non sono state segnalate vittime, ma è la prima volta che Israele colpisce in maniera tanto massiva un’infrastruttura siriana di così grande rilevanza.

Tel Aviv giustifica tali attacchi come preventivi, perché servirebbero a tagliare le vie di rifornimento che dall’Iran portano a Hezbollah, in Libano, ma l’imponenza dell’operazione sembra più che altro uno sfoggio muscolare, anch’esso preventivo, in vista di quanto avverrà a Vienna.

In questa città, infatti, si stanno svolgendo i cruciali colloqui sul nucleare iraniano e ci sono segnali che un accordo, seppur minimale, potrebbe andare in porto. L’Iran ha infatti annunciato che non arricchirà l’uranio oltre la soglia del 60%. È quanto chiedevano gli Stati Uniti: lo stop all’arricchimento dell’uranio in cambio di uno sgravio, seppur non totale, delle sanzioni, in attesa di tempi migliori per un’intesa più ampia.

L’attacco a Latakia sembra così un segnale: Israele ha voluto dimostrare che se anche si troverà un’intesa, la guerra contro l’Iran e i suoi delegati è destinata a durare.

Ma al di là del conflitto, che durerà tempo, per quanto riguarda il dialogo di Vienna vanno registrate le dichiarazioni venate di “ottimismo” di iraniani e russi, secondo i quali sarebbero stati fatti progressi “nella direzione giusta” (Haaretz).

Ma ancora più importante appare il cambio di registro da parte delle autorità israeliane dopo la visita del Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan a Tel Aviv.  Di questo viaggio abbiamo accennato in una nota precedente, spiegando quanto fosse importante sia per la prossimità con il nuovo round di colloqui sia per la durata, dal momento che l’inviato di Biden si è trattenuto nel Paese per ben tre giorni.  Axios aveva riferito alcune indiscrezioni di parte israeliana, che suggerivano come Sullivan avesse di fatto accolto le remore dell’establishment di Tel Aviv, assolutamente contrario all’intesa (in realtà tale niet non è così monolitico, vedi Piccolenote).  All’indomani della visita, il primo ministro israeliano Naftali Bennet, il quale ai primi di dicembre aveva detto che le trattative di Vienna dovevano finire subito, ha affermato che Israele non è a priori ostativa a un’intesa con l’Iran, ma vuole un “accordo buono“.

Dichiarazione vaga, che consentirà di criticare qualsiasi intesa raggiunta, e però più che significativa, dal momento che è la prima volta che il premier israeliano, che invano aveva tentato di dissuadere Biden dalla sua determinazione, si è detto favorevole a essa.  Vuol dire che Sullivan a Tel Aviv ha tenuto fermo il punto, costringendo le autorità israeliane a  correggere il tiro, dal momento che non possono dissentire apertamente da Washington.

Le trattative per non far fallire il summit di Vienna si stanno dipanando in tutto il mondo:  se gli Usa hanno intrapreso un fitto dialogo con Israele, la Russia si è impegnata con la controparte, come denota anche la visita del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Mosca di questi giorni.

Questo lavorio diplomatico si intreccia con lo sfoggio muscolare dei contendenti. Israele si è detta più volte pronta ad attaccare l’Iran, anche con armi nucleari se necessario,

E in una nota su Haaretz, Chuck Freilich, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale israeliana, ha anche profuso ottimismo su questa eventuale operazione, che risulterebbe del tutto indolore per Israele (un irenismo che cozza con quanto reputano gli analisti della Difesa israeliana, e tanti altri, vedi ad esempio The Atlantic).

Per parte sua Teheran ha inviato un messaggio alla controparte di segno analogo, con un’esercitazione che simulava un attacco alla centrale nucleare di Dimona. A conferma che non c’è una soluzione militare a questa ardua querelle.