Bosnia ed Erzegovina: voltare pagina sul passato (audio)

Il cardinale Puljic arcivescovo di Sarajevo cq5dam.thumbnail.cropped.750.422Il sanguinoso conflitto, che, alla fine del secolo scorso, sconvolse l’ex Jugoslavia, ancor oggi ha delle conseguenze sulla convivenza tra i vari nazionalismi che si sono affermati alla fine dei regimi comunisti e alla morte del presidente jugoslavo Tito. In particolare la Bosnia ed Erzegovina è alle prese con un processo di stabilizzazione che fatica a concludersi

Giancarlo La Vella – Città del Vaticano

Nel novembre 1995 l’Accordo di Dayton pose fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina, ultimo atto bellico della frantumazione della Jugoslavia. Etnie e nazionalismi, che solo il maresciallo Tito era riuscito a non far deflagrare, si opposero l’un l’altro con le armi per circa un decennio in quello che rappresenta il più grave conflitto che l’Europa ha vissuto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Slovenia, Croazia, Serbia, Repubblica di Macedonia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina sono gli Stati nati dopo quel periodo drammatico e doloroso. Ognuno porta con sé le ferite di un conflitto che all’epoca sembrava senza soluzione. La mediazione statunitense ed europea riuscì a far tacere le armi, ma ancora oggi ci sono problemi da risolvere.

Bosnia ed Erzegovina: realtà diverse in un unico Stato

La Bosnia ed Erzegovina di oggi è stata disegnata proprio dall’Accordo di Dayton, che ha riconosciuto nel Paese la presenza di due entità ben definite: la Federazione croato-musulmana, che detiene il 51% del territorio e la Repubblica Srpska, che ha il 49%. Le due entità create, pur dotate di poteri autonomi in vari settori, sono inserite in una cornice statale unitaria. Alla presidenza collegiale del Paese siedono un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di capo dello Stato, che appare dunque come un ‘primus inter pares’. Esistono poi parlamenti locali e una Camera nazionale in cui sono rappresentati serbi, croati e musulmani. La soluzione di Dayton sembrò la migliore delle soluzioni da adottare per bloccare la guerra che aveva assunto connotazioni di contrapposizione etnica, ma sicuramente non ha consentito di archiviare tutti i problemi e alcuni cose sono ancora da chiarire. Quattromila persone sospettate di crimini di guerra devono ancora essere processate. Ci sono ancora frizioni tra le varie anime del Paese: i serbo-bosniaci minacciano la secessione e anche il fenomeno della migrazione, per quelle persone che scelgono la rotta balcanica, che dall’Africa consente di raggiungere l’Europa, sta diventando per Sarajevo di difficile gestione. Secondo Mauro Ungaro, direttore di Voce Isontina, pubblicazione della diocesi di Gorizia, occorre ancora un grosso impegno per pacificare il Paese a quasi 25 anni dalla fine della guerra.

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