Vaticano Intervista al cardinale Sandri nel centenario della Congregazione per le Chiese orientali. Accanto ai cristiani d’oriente - L'Osservatore Romano

sandri card(Nicola Gori) Spegne cento candeline la Congregazione per le Chiese orientali. È trascorso infatti un secolo da quando Benedetto XV istituì il dicastero che si occupa delle comunità cristiane d’Oriente. Il tempo non ha certo sminuito le finalità per cui è stata fondata: testimoniare l’unità della Chiesa e mostrare la vicinanza e la premura del Papa e della Santa Sede per i cristiani di ogni rito e tradizione. Ne parla all’Osservatore Romano il cardinale prefetto Leonardo Sandri, alla vigilia della visita che il Papa compirà giovedì 12 ottobre al Pontificio istituto orientale prima di celebrare la messa a Santa Maria Maggiore per la comunità della Congregazione.
Sono ancora attuali le motivazioni che spinsero Benedetto XV a istituire la Congregazione per le Chiese orientali?
Vorrei anzitutto ritornare al contesto storico in cui fu presa quella decisione: ci trovavamo nel pieno del primo conflitto mondiale, e proprio questa estate sono stati commemorati i cento anni dall’appello che Benedetto XV rivolse alle nazioni belligeranti per fermare quella che fu definita, con un termine poi passato alla storia, l’“inutile strage”. Da quei fatti cambiarono molti equilibri in Europa, penso in Russia, ma anche nello stesso Medio oriente, con la caduta di lì a poco dell’impero ottomano che fino ad allora aveva mantenuto una certa supremazia in tutte le aree ove insistono una grande parte delle nostre Chiese orientali. È triste dover constatare che dopo cento anni il contesto globale non è certo migliorato, e che ci troviamo di fronte a quella che Papa Francesco ha definito la “guerra mondiale a pezzi”. Più di venticinque anni fa, con la caduta, dopo il muro di Berlino, dei regimi comunisti atei nell’est dell’Europa, uscirono dalle catacombe e del martirio le Chiese greco-cattoliche — penso a quella ucraina e a quella rumena — e la ritrovata libertà fece prendere coscienza anche all’Occidente della presenza di questi fratelli e sorelle provati dalla persecuzione. Analogamente, negli anni recenti, le tristi vicende della Siria e in Iraq hanno portato all’attenzione del mondo la presenza dei cristiani, che sono di quei paesi cittadini nativi da due millenni. Questi processi di consapevolezza, che la storia ci impone di far emergere, possono aiutarci a capire lo stesso cammino in seno alla Chiesa cattolica, che è “unita, ma plurale”. Così come Pio IX volle creare una sezione per gli affari orientali nella Congregazione De Propaganda Fide, così Benedetto XV volle porre un gesto che manifestasse in modo più chiaro la sollecitudine della Sede apostolica per i cristiani orientali, riservando alla stessa persona del romano Pontefice la cura dei loro interessi.
Benedetto XV si impegnò quindi di persona per il nuovo dicastero?
Se pensiamo come pochi mesi fa abbia suscitato una certa sorpresa la decisione di Papa Francesco di riservare a sé la responsabilità diretta sulla sezione per i migranti del nuovo dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale, ecco che capiamo come in alcuni momenti storici le scelte dei Pontefici abbiano una forte valenza simbolica per sottolineare l’importanza di una realtà in seno alla Chiesa. Nel caso degli orientali, i Pontefici sono stati “prefetti del dicastero” sino alla riforma della Curia voluta da Paolo VI, e i cardinali erano nominati col titolo di “segretario”. Nel frattempo il cammino di consapevolezza è maturato ulteriormente: ci sono stati il concilio ecumenico Vaticano II, con il documento dedicato Orientalium Ecclesiarum, e l’inizio dei lavori per la redazione del Codice dei canoni delle Chiese orientali, poi completato e promulgato nel 1990 da Giovanni Paolo II. E anche a livello di percezione non solo nominale, si è passati al “plurale”: Congregazione per “le Chiese orientali”. Oggi come allora, in spirito di profonda comunione, dovremmo rallegrarci di un’affermazione fatta nell’atto di fondazione che rimane attuale anche oggi: «Questa iniziativa dimostrerà manifestamente come nella Chiesa di Gesù Cristo — la quale non è né latina, né greca, né slava, ma cattolica — non esiste nessuna discriminazione tra i suoi figli e che tutti, latini, greci, slavi e di altra nazionalità hanno tutti la medesima importanza di fronte a questa Sede apostolica».
Il centenario è occasione per riflettere sulla presenza della Chiesa nei paesi a maggioranza musulmana. Quali potenzialità e quali difficoltà si riscontrano?
Vorrei partire da una immagine molto forte e bella. Quando ci si reca in Libano e si è ospiti della nunziatura apostolica ad Harissa, si è confinanti con il famoso santuario mariano, che custodisce una delle grandi statue della Madre di Dio che, sparse sul territorio nazionale, quasi vegliano sul paese del cedri. Ebbene, in tutti i periodi dell’anno, ma particolarmente nei periodi tradizionalmente dedicati alla devozione mariana, tra i centinaia di pellegrini, non pochi dei quali giovani, si trovano anche molti musulmani, sunniti e sciiti, a volte neanche libanesi. Certi, essi vengono con una disposizione particolare, tuttavia è significativo riportare questo fatto per smentire un’immagine soltanto negativa della convivenza islamo-cristiana. Nel Libano stesso è celebrata con particolare attenzione la festa dell’Annunciazione, ed è occasione di uno scambio culturale tra cristiani e musulmani.
Lo stesso avviene negli altri paesi mediorientali?
Personalmente, ricordo alcune visite a Kirkuk, in Iraq, prima dell’avvento del Daesh, dove nella moschea sono stato accolto da tutti i referenti religiosi musulmani — sunniti, sciiti, curdi — locali, o ancora a Baghdad, dove nel dicembre 2012 alla cerimonia di riconsacrazione della cattedrale siro-cattolica profanata il 31 dicembre 2010 con l’uccisione di circa sessanta tra sacerdoti e fedeli, erano presenti dei capi musulmani sunniti e sciiti. Oppure in Kazakhstan, paese per il 70 per cento musulmano, dove sono stato accolto in una delle grandi moschee durante la mia visita del settembre 2013, sempre con cordialità e amicizia. Con questo non voglio negare le difficoltà e le violenze, specie di questi ultimi anni; tuttavia vanno riferite sia le notizie dolorose come quelle che danno speranza. Del resto, la violenza di alcuni fanatici e fondamentalisti ha scosso il mondo islamico e ha iniziato in alcuni, a livello personale o istituzionale, a far sorgere domande, propiziatrici di un cammino di nuova consapevolezza. Un segno è senz’altro la conferenza internazionale organizzata dall’università Al-Azhar con la presenza di Papa Francesco. In ogni caso, il frutto di quei giorni di incontri è l’affermazione del concetto di “cittadinanza” per tutti gli abitanti dei paesi musulmani, rivoluzionario se pensiamo al concetto di “dhimmitudine” normalmente praticata e desunta dalle fonti islamiche. In questa cornice, pur tra le fatiche e alcuni episodi davvero dolorosi che non si fermano, la presenza delle Chiese orientali continua, percorrendo principalmente due vie: l’educazione e la carità. Le scuole cattoliche sono grazie a Dio ancora un punto di riferimento autorevole, frequentate da moltissimi fedeli musulmani, dove c’è la possibilità di un’educazione che promuova la dignità inviolabile della persona umana. A livello universitario, porto l’esempio della Bethlehem university, in Palestina, o il percorso di strutturazione dell’università di Madaba, in Giordania, entrambi soggetti bisognosi di sostegno anche economico per affrontare la sfida quotidiana ma gravida di futuro per la pacifica convivenza delle popolazioni locali. Tra le difficoltà, oltre agli episodi di intolleranza cui ho fatto cenno, penso sia necessario insistere su due fronti: la revisione dei programmi scolastici, che talora sono segnati da una visione ideologica e poco scientifica nell’insegnamento ad esempio della storia dei popoli e delle nazioni del Vicino e Medio oriente, e l’affermazione del principio di libertà religiosa come decisivo per la civiltà umana contemporanea.
È anche il centenario della nascita del Pontificio istituto orientale (Pio). Che significato ha questa ricorrenza?
Rispettando la mens che animò il Pontefice Benedetto XV cento anni fa, si è scelto attraverso una serie di iniziative lungo l’anno di celebrare insieme al Pontificio istituto orientale l’importante anniversario. Il culmine sarà la mattinata del 12 ottobre, con la presenza di Papa Francesco, prima al Pio e poi a Santa Maria Maggiore per la messa, con i membri e gli officiali del dicastero, i superiori, i docenti e gli studenti dell’istituto, oltre al preposito generale della Compagnia di Gesù, che è vice gran cancelliere, tenuto conto che dal 1922 a essi è affidata la direzione e la gestione del Pio. Ovviamente in cento anni il contesto è mutato, i regimi atei dell’est Europa sono caduti, il concilio Vaticano II ha rielaborato la visione del dialogo ecumenico e interreligioso, quindi la missione dell’istituto viene di volta in volta ricalibrata in funzione dei cambiamenti epocali ed ecclesiali. In questo senso sarà illuminante accogliere la parola autorevole di Papa Francesco che proprio giovedì dovrebbe consegnare una sua lettera pontificia sulla missione del Pio. Oltre agli studi delle due facoltà di scienze ecclesiastiche (teologia patristica, storia, liturgia e spiritualità) e di diritto canonico orientale (unica in tutto il mondo a rilasciare il titolo di dottorato) che coinvolgono studenti di tutte le Chiese orientali cattoliche ed ortodosse, ricordiamo che il Pio si onora di avere tra i suoi ex-studenti il patriarca ecumenico Bartolomeo.
Qual è oggi la missione del Pio?
Rimane valido ma ancora incompiuto quanto Pio XI scriveva nel 1927 nell’enciclica Rerum Orientalium: che anche tra i figli della Chiesa latina ci siano sacerdoti studenti preparati nelle discipline orientali. Se allora sembrava rivolto alla missione, oggi più che mai diventa un obbligo in funzione dell’accoglienza di fedeli e comunità orientali in Europa e nel mondo. I nostri fratelli e sorelle orientali infatti non sono più “amici lontani”, ma sempre più spesso vicini e abitanti delle nostre stesse terre, e il conoscersi passa attraverso un approfondimento serio e scientifico del patrimonio di cui sono portatori.

©   L'Osservatore Romano, 11-12 ottobre 2017