SAN BARTOLOMEO APOSTOLO TRA ORIENTE E OCCIDENTE

san-bartolomeo-martirio-2La figura dell’apostolo Bartolomeo non è tra quelle più memorabili del collegio apostolico, e non avrebbe alcun ruolo attivo nei Vangeli se non venisse identificato con il “pio israelita” Natanaele di Gv 1,45-51, dove viene trascinato all’incontro con Gesù da Filippo (v. Mt 10,3), che gli assicura di aver trovato il Messia; è interessante che nell’invito che Filippo rivolge a Natanaele Gesù venga identificato con grande precisione come “figlio di Giuseppe di Nazareth”, un appellativo unico nei Vangeli, probabilmente dovuto al formalismo giudaico di cui pare imbevuto l’interlocutore.
Infatti il futuro apostolo sottolinea subito l’incongruenza con una domanda che rende l’incontro intenso e teso fin dall’inizio: “può mai venire qualcosa di buono da Nazareth?”, in cui si sottintende la scarsità di riferimenti messianici relativi alla cittadina della Galilea, una regione decisamente non prioritaria nella storia della santità ebraica.

Nella domanda si esprime quindi lo scetticismo dell’antico Israele ad accogliere Gesù, e più in generale la grande obiezione del pregiudizio del mondo nei confronti di Cristo: si attende il bene solo da ciò che già viene compreso dai progetti e dalle ideologie dominanti, non dall’imprevedibile rivelazione di Dio.
Al pregiudizio risponde l’appello cristiano per eccellenza, quello all’esperienza personale e diretta: “vieni e vedi”. E ad esso segue l’incontro vero e proprio, che corrisponde e supera lo spessore del giudizio preconfezionato.
Gesù infatti prende l’iniziativa ed esclama un elogio quasi senza pari nel Vangelo: “Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità!”, che colpisce al cuore Natanaele, superando la barriera che aveva innalzato e svelando ciò che costituisce la struttura profonda della sua anima: l’attesa di questo incontro, il desiderio di vedere il Messia. Infatti la reazione del discepolo (perché fin da subito egli riconosce la vittoria del maestro, riconosce di appartenergli) è solo apparentemente sospettosa: “Come mi conosci?”, che può sembrare una presa di distanza, un “per caso ci conosciamo?”, ma in realtà esprime l’evidenza di un rapporto definitivo e miracoloso, “come fai a conoscere il mio cuore?”.
Gesù gli spiega di averlo visto da lontano, “prima che Filippo ti chiamasse, quando eri sotto il fico”, uno sguardo amoroso e sconvolgente, lo sguardo di chi coglie anche nel lontano dettaglio i segreti dell’animo umano. È questo che travolge l’apostolo, che prorompe in una triplice professione di fede: “Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re d’Israele!”, una delle formule più solenni di tutto il Vangelo, la fede del “vero Israele”.
Gesù, come poi farà con Tommaso dopo la risurrezione, accoglie quasi con distacco questo improvviso entusiasmo: “Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!”, annunciando la sua venuta nella gloria degli angeli alla fine dei tempi.


      Curiosamente, la storia della Chiesa apostolica riprenderà questa vicinanza spirituale dei due apostoli, Bartolomeo e Tommaso, apparentemente non legati tra loro da altri segni o parole. I due apostoli più scettici seguiranno itinerari simili, che li porteranno in Oriente, fino agli sterminati territori dell’India. Non si tratta di una missione comune: mentre a Tommaso viene chiaramente attribuita l’evangelizzazione degli indiani, che nella loro più antica denominazione vennero chiamati “cristiani di S. Tommaso”, di Bartolomeo si accenna che predicò “in Armenia, India e Mesopotamia”, senza peraltro lasciare memorie specifiche o leggende che raccontino tale missione nei particolari, tranne un accenno relativo al maestro alessandrino Panteno, che recandosi tra gli indiani trovò che “alcuni del luogo avevano imparato a conoscere Cristo, e che il Vangelo secondo Matteo aveva preceduto la sua venuta: tra loro, infatti, aveva predicato Bartolomeo, uno degli apostoli, che aveva lasciato agli indiani l’opera di Matteo nella scrittura degli ebrei, ed essa si era conservata fino all’epoca in questione”. Nella storia degli armeni si attribuisce a S. Bartolomeo un viaggio apostolico congiunto a un altro apostolo, Giuda, in cui si sarebbero gettate le basi per l’evangelizzazione poi portata a compimento alla fine del terzo secolo da s. Gregorio l’Illuminatore, che convertendo il re armeno Tiridate II fece dell’Armenia il primo regno cristiano (301), prima ancora dello stesso Impero romano. Le Chiese nei territori orientali dell’Impero hanno in realtà storie assai più nebulose di quelle dei territori greci e latini, ma possiamo comunque annoverare l’apostolo Bartolomeo tra i padri della Chiesa Orientale, quella più vicina alla mentalità e alle tradizioni delle stesse comunità giudaiche.

Come tutti gli apostoli, anche Bartolomeo seguì l’esempio di Cristo fino al martirio. In Oriente si ritiene che anch’egli sia stato crocifisso, mentre nell’Occidente cristiano si tramandarono altre due varianti, quelle della morte per decapitazione o per scuoiamento; ed è quest’ultima versione che si è affermata nell’arte e nella letteratura, con rappresentazioni molto realistiche. Bartolomeo ha infatti suscitato grande devozione nel Medioevo, come del resto tutti gli apostoli; le sue reliquie sono contese ancora oggi tra Roma e Benevento, che ritengono entrambe di detenere quelle originali, dopo aver a lungo pellegrinato in Mesopotamia e nei territori bizantini. Il passaggio da Oriente a Occidente è ricordato da Gregorio di Tours (538-594), che lo ha descritto con tratti miracolosi (la cassa di piombo con il corpo di Bartolomeo, gettata in mare dai pagani dalla costa d’Asia, cioè l’attuale costa turca sull’Egeo, avrebbe galleggiato fino a Lipari). Nel 999 (anche se comunemente si continua a indicare la data del 983) le reliquie furono traslate a Roma per ordine di Ottone III, che le depose nella chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, da lui edificata originariamente in memoria dell’amico san Adalberto, vescovo di Praga e martire nel 997.

      La memoria dell’apostolo illumina quindi l’apertura del secondo millennio cristiano, inaugurato proprio dall’imperatore germanico insieme al papa Silvestro II. Scavi recenti hanno ritrovato all’Isola tiberina la profonda cavità rettangolare in cui erano state adagiate le reliquie dell’apostolo.

Ci siamo ormai inoltrati nel terzo millennio dell’era cristiana, e la memoria degli apostoli rimane per noi un punto di riferimento sempre attuale e imprescindibile per ritrovare la freschezza del Vangelo di Cristo. Gli apostoli ci annunciano il Cristo vivente, da loro incontrato in presa diretta e testimoniato nella gloria del Risorto, che si fa contemporaneo a ciascuno di noi. Nella loro esperienza noi riviviamo anche la gioiosa esuberanza della Chiesa indivisa, la Chiesa primitiva nella sua comunione universale, senza il peso delle divisioni storiche, pur nella vastità dei territori da loro percorsi e nella diversità delle tradizioni da loro stessi generate. In un mondo sempre più scettico e sfiduciato, abbandonato al nichilismo di orizzonti sempre più angusti e all’egoismo di mentalità sempre più indifferenti alla comune ricerca della verità sull’uomo, sul mondo e su Dio, ci rivolgiamo all’apostolo Bartolomeo, uomo diffidente ma “senza falsità”, che seppe riconoscere il Signore della vita grazie a uno sguardo gettato da lontano.
     Con lui chiediamo anche noi a Cristo: “come mi conosci?”, poiché noi stessi facciamo fatica a conoscere ciò che abbiamo nel cuore, ma non smettiamo di cercarlo ogni momento.