Storie di santa pazzia - di Giovanni Cerro

aussenzio di bitiniaNella Historia Lausiaca, composta attorno al 420, Palladio narra di una giovane donna ospitata in un monastero femminile nei pressi di Tabennisi, nella Tebaide, che «recitava la parte di pazza e indemoniata». Con uno straccio lacero in testa, trascorreva le sue giornate sbrigando tutti i servizi relativi alla cucina della comunità: non amava la compagnia delle consorelle, e queste ultime da parte loro la evitavano. Non si sedeva mai a tavola, ma si cibava soltanto di molliche di pane e di resti di cibo ricavati dalle pentole che puliva. Un giorno, però, accadde qualcosa di imprevisto.

Un angelo apparve a Piterum, un anacoreta che viveva sul monte Porfirite, rimproverandolo per il suo orgoglio e ordinandogli di recarsi immediatamente a Tabennisi perché lì c’era una donna migliore di lui: «Pur dovendo lottare contro tanta gente, ella non ha mai allontanato il suo cuore da Dio; tu invece te ne stai tranquillo in questo luogo e nel tuo pensiero vai vagando per le città». Giunto nel monastero, Piterum incontrò la donna e si inginocchiò davanti a lei, implorandola di benedirlo. E lo stesso fece la monaca. Per cercare di risolvere la situazione imbarazzante, le consorelle chiesero a Piterum di scusarla perché era sale, termine bizantino per indicare una folle di Dio (il corrispettivo maschile è salos), ma quest’ultimo, anziché dare loro credito, le rimproverò: «Siete voi ad essere pazze: ella, per me e per voi, è ammas — così infatti, col nome di madre, chiamano le donne di alta spiritualità — e io prego di essere trovato degno di lei nel giorno del giudizio».
Sorprese dalla risposta dell’asceta, le monache iniziarono a confessare i soprusi e le violenze che avevano perpetrato contro di lei: una disse di averle gettato la sciacquatura dei piatti addosso, un’altra di averla colpita con dei pugni, un’altra ancora di averle infilato un oggetto nel naso. A quel punto il santo, dopo aver pregato, lasciò il monastero e lo stesso fece qualche giorno più tardi la donna, non riuscendo a sopportare né l’onore che le veniva ora tributato né le numerose richieste di perdono che le venivano rivolte. Da allora di lei non si seppe più nulla.
Quel che è certo è che in un’ideale genealogia dei folli di Dio, coloro che simulavano la pazzia per amore del Signore, la donna di Tabennisi occupa un posto di sicuro rilievo, essendo il primo caso del genere attestato nella letteratura monastica e agiografica, come mostra Isabella Gagliardi nel suo documentatissimo studio Novellus pazzus. Storie di santi medievali tra il Mar Caspio e il Mar Mediterraneo (secc. IV-XIV), pubblicato dalla Società Editrice Fiorentina (Firenze, 2017, pagine 241, euro 18). La storia della tabennesiota — spiega Gagliardi — presenta molte caratteristiche che nei racconti successivi si trasformeranno in veri e propri topoi: il disprezzo di sé e il non conformismo come strumenti per salvaguardare l’umiltà e il rapporto diretto con Dio; la denuncia dell’ipocrisia che regola le relazioni umane e della perversa logica del mondo; l’incomprensione, l’ostilità e la conseguente marginalizzazione da parte di consorelle e confratelli, che spesso non comprendono la dimensione radicalmente spirituale di queste esperienze; infine, l’intervento di un segno divino, che conferma in modo autorevole lo stato di grazia dei folli di Dio.
Mentre la donna citata da Palladio viveva in una comunità monastica, pur se in una condizione di estremo isolamento, Maria di Antiochia rappresenta un’eccezione nell’eccezione: non solo è una donna, ma anche una donna per così dire errante. Insieme a un uomo di nome Teofilo, Maria conduceva infatti quella che oggi chiameremmo una doppia vita. Di giorno, lei abbigliata da prostituta, lui da mimo, si ritrovavano davanti al sagrato di una chiesa, esponendosi alla derisione e allo scherno dei passanti. Di notte, invece, mettevano da parte i loro travestimenti e si dedicavano completamente alla preghiera. I due giovani avrebbero dovuto sposarsi, racconta il monofisita Giovanni da Efeso nelle sue Vite dei santi orientali, ma dopo l’incontro con il mistico Procopio avevano deciso di votarsi a Dio.
Se due donne stanno all’origine di questa ricchissima e composita tradizione, la letteratura abbonda di storie e aneddoti curiosi, quasi tutti riguardanti eremiti maschi. Negli Apophthegmata Patrum troviamo un monaco di Eleuteropoli, in Giudea, che non riusciva a trattenere una risata fragorosa ogni volta che era avvicinato da un fratello e che aveva escogitato un curioso espediente per evitare le tentazioni del demonio. Nella sua cella teneva due ceste: in una inseriva una pietra per ogni pensiero buono che faceva, nell’altra metteva un sasso per i pensieri cattivi. Se al mattino la cesta dei pensieri buoni era piena, si concedeva un pasto, altrimenti si autoinfliggeva il digiuno. Il siro Evagrio Scolastico nelle sue Ecclesiasticae Historiae, risalenti alla fine del VI secolo, parla invece di Simeone di Emesa, accusato di aver avuto una relazione con una serva e di essere stato con una prostituta. Dicerie del tutto infondate, ma che Simeone non si preoccupava affatto di smentire, anche a costo di mettere a repentaglio la sua reputazione. Solo l’azione di Dio giunge a ripristinare la verità: durante il parto la domestica rivela il vero nome del padre del bambino (è l’unico modo per metterlo al mondo), mentre in tribunale si scopre che Simeone si era recato a casa della prostituta solo per portarle cibo e acqua e impedirle così di morire di fame.
Si tratta di modelli influenti sia a livello geografico che temporale, di cui Gagliardi ripercorre le vicende, individuando due principali direttrici di diffusione. La prima, verso oriente, dove nei territori islamizzati i pazzi di Dio diventano gli antenati dei mistici sufi, generando così un sorprendente incontro tra culture religiose. Il secondo percorso conduce questi testi verso l’Europa continentale, dove verranno rielaborati nel composito repertorio riguardante il movimento fondato da Francesco d’Assisi, il novellus pazzus a cui si allude nel titolo del libro di Gagliardi.
A parte Francesco stesso, non si può trascurare frate Egidio, di cui la Chronica Generalium narra che un giorno per espiare i propri peccati si fece mettere una pesante pietra al collo e la trascinò lungo un bosco, intonando il Miserere. O il caso di frate Ginepro, un uomo che grazie all’immensa semplicità del suo animo era in grado di cogliere il vero significato della Parola di Dio.
La storia dei folli di Dio prosegue con le turbolente esperienze religiose che caratterizzarono il territorio umbro e toscano tra XIII e XIV secolo. In particolare, Gagliardi si sofferma sulla figura di Pietro Crisci da Foligno, che usava raccogliere pietre levigate dalle acque del fiume Topino, bagnarle con le sue lacrime di contrizione per la vita peccaminosa che aveva condotto prima della conversione e offrirle a un’immagine della Vergine Maria che si trovava in città. Non solo: Pietro arrivò a vendere se stesso, distribuendo il denaro ricavato ai poveri, e se ne andò girovagando coperto soltanto di una consunta tunica di canapa, con il capo completamente rasato. Questi comportamenti lo esposero ai motteggi di torme di bambini e adolescenti e accrebbero la sua cattiva fama di «instabile e malato di mente». Anche il senese Giovanni Colombini, insieme a una folta schiera di laici di estrazione sociale medio-alta, tutti devoti al Nome di Gesù, si sottopose a mortificazioni pubbliche spettacolari, ancora una volta per denunciare gli errori commessi in passato, quando aveva ricoperto incarichi politici di prestigio. Giovanni percorse così in groppa a un asino i luoghi che aveva un tempo attraversato fiero a cavallo e si fece trascinare nudo per le strade esortando la popolazione che un tempo aveva vessato a insultarlo. La carica potenzialmente eversiva e anti-istituzionale incarnata da quanti «facevano del pazzo» portò tra medioevo e prima età moderna giuristi e medici a tentare di spiegare il fenomeno ricorrendo talvolta a categorie desunte dal diritto romano e dalla trattatistica medica di epoca classica, più spesso a metterne a punto di nuove.
I contorni della “santa pazzia” rimasero però sempre sfuggenti, così come continuò a essere sottile il confine tra la spinta all’esclusione sociale e la necessità di un’inclusione pur problematica.

di Giovanni Cerro

© Osservatore Romano -  4 settembre 2018