Li avevano già perdonati · I ​martiri di Tibhirine e l’incontro previsto con i loro carnefici ·

monaci chiostro ed443924d716c952d29b1768d8f66d56Il mensile «Città Nuova» in occasione della beatificazione dei 19 martiri uccisi in Algeria fra il 1994 e il 1996, ha pubblicato la testimonianza di una focolarina che si recò nel paese nordafricano in visita alla comunità dei

monaci di Tibhirine, qualche anno prima dei tragici accadimenti che portarono al martirio dei religiosi. Riportiamo il testo integrale dell’articolo.

Sono passati tanti anni. Era il 1972-73 quando partivamo da Algeri, noi quattro focolarine, con la nostra utilitaria, per attraversare il Parco nazionale di Chréa, giungere a Medea e poi inerpicarci sulla strada che conduce al monastero Notre Dame de l’Atlas di Tibhirine. Una giornata di ritiro, con un breve soggiorno nella foresteria. Rivivo ancora quelle sensazioni: il profumo che emanavano le aiuole di rosmarino, il gelsomino, la terra smossa dal lavoro dei monaci, la polvere sollevata dal vento dell’Atlas. La rudezza dell’ambiente e la sua affascinante povertà. Sicuramente il clima era mite perché fuori all’aperto era stata installata una vecchia macchina da cucire e uno dei monaci confezionava gli ampi camici con il tessuto bianco, grezzo, che usavano indossare. Una visita alla cappella dove il raccoglimento veniva subito incontro senza averlo cercato, e al locale dove Frère Luc, medico, riceveva la gente, donne e bambini soprattutto, che avevano bisogno di medicine e di consigli. La foresteria, ben curata ed essenziale, offriva la frescura e qualche conversazione con gli altri ospiti, venuti anch’essi per incontrare i monaci. «Venite a pregare con noi?». «Sì, abbiamo anche previsto di ritirarci un momento per leggere la Parola di vita che ci siamo ripromesse di sottolineare questo mese, e di raccontarci come la stiamo vivendo». «E quale frase del Vangelo avete scelto?». Brevi conversazioni essenziali mentre la macchina da cucire faceva scorrere il tessuto sotto l’ago. «Siete le focolarine. Come vi trovate qui in Algeria?». A dire il vero noi eravamo lì da poco tempo e avvertivamo il bisogno di ascoltare l’esperienza di questi uomini di Dio, più che di raccontare la nostra ancora agli inizi. Loro avevano instaurato con la popolazione locale un rapporto straordinario di interazione e di rispetto, che noi dovevamo imparare. Così ascoltando quelle parole essenziali e guardando quegli occhi innocenti, caricavamo il nostro spirito di una bellezza rara e di una sapienza provata. Il viaggio di ritorno ad Algeri normalmente era più silenzioso di quello di andata. Quella profondità aveva favorito il rapporto con Dio, e in Dio eravamo così “uno” da non aver bisogno di tante parole, se non: «Come è stato bello! Dobbiamo ritornare per il prossimo ritiro!». Non sapevamo ancora che il profumo di quel luogo, oltre al rosmarino, al gelsomino, agli aromi portati dal vento, sarebbe stato quello della santità e del martirio con il rapimento, nella notte fra il 26 e il 27 marzo 1996, e il massacro di sette di loro. Fratelli in umanità. Beati perché «hanno perdonato i loro assassini, mostrando di amare più la vita eterna», ha detto Papa Francesco. La loro beatificazione amplifica ciò che ha scritto padre Christian de Chergé nel suo testamento: «Se mi capitasse un giorno — e potrebbe essere oggi — di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo Paese. Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito [...]. E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inch’Allah». Con i sette monaci di Tibhirine, sono 19 i cristiani, uomini e donne, che hanno versato il loro sangue negli anni attraversati della terribile guerra civile in Algeria, in un “abbraccio” con la popolazione musulmana, falciata anch’essa dall’odio omicida. I nomi, primo fra tutti il vescovo Pierre Claverie, di questi testimoni del dialogo restino nella nostra memoria: padre Christian de Chergé, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard, Christophe Lebreton, Luc Dochier, Michel Fleury e Paul Favre-Miville, Fratel Henri Vergès, Suor Paul-Hélène Saint-Raymond, Suor Esther Paniagua Alonso, Suor Caridad Álvarez Martín, Padre Jean Chevillard, Padre Alain Dieulangard, Padre Charles Deckers, Padre Christian Chessel, Suor Angèle-Marie Littlejohn, Suor Bibiane Leclercq, sorella Odette Prévost.

© Osservatore Romano  11.12.2018

di Rosi Bertolassi