Le meditazioni del primate anglicano e del patriarca di Costantinopoli

assisi arcobalenoImpariamo, come cristiani, ad ascoltare «il grido di Dio verso l’umanità», ma anche «il grido del nostro prossimo» e soprattutto «la voce dei più abbandonati e dei più poveri».
È il comune appello lanciato dal primate della Chiesa d’Inghilterra, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, e dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, nel corso della preghiera ecumenica che si è svolta nella basilica inferiore di San Francesco. «Nell’economia di Dio», ha ricordato l’arcivescovo Welby nella prima meditazione, siamo proprio noi «i più poveri tra i poveri, più poveri che mai perché ci crediamo ricchi». È il grande inganno che attanaglia il mondo occidentale, nel quale «la nostra economia immaginaria, che noi trattiamo come fosse reale, non solo ci inganna e ci fa spendere il nostro denaro senza valore per cose che non soddisfano, ma anche consuma le nostre energie facendoci correre dietro a illusioni». Questa menzogna, nella quale sono fiorite le «tragedie del debito e della schiavitù», ha portato come frutti insoddisfazione e disperazione, sfascio delle famiglie, fame e disuguaglianze, derive estremiste. «Minata dalla paura — ha aggiunto il presule — dal risentimento e dalla rabbia, la nostra ricerca si fa ancora più disperata, nella paura dello straniero, senza sapere dove trovare coraggio». Cosa è richiesto, quindi, soprattutto ai cristiani? Una conversione, un «rinnovamento continuo» nel quale, fidandoci della misericordia di Dio, diventiamo capaci «di esprimere misericordia verso gli altri». Sulla necessità di una conversione che parta dall’ascolto, di Dio e dei fratelli, ha insistito anche il patriarca Bartolomeo. Conversione, che è «capacità di portare il cuore e la mente a cambiare rotta, a convergere solamente su “colui che è”». Conversione che porti tutti i cristiani a una «martyria, una testimonianza di comunione», perché, si è chiesto Bartolomeo, «quale parola di pace potrà essere offerta all’altro, al diverso, al lontano, allo sconosciuto, a colui che si frappone tra noi, se quella parola di pace non sarà una reale esperienza di comunione con la “luce radiosa del mattino”?». E ancora: «Come offrire pace che è amore, senza la reale testimonianza che è martirio? Senza essere icone viventi della comunione trinitaria in Dio e con il prossimo?». Quella che coinvolge tutti i cristiani, ha detto il patriarca, è «una grande responsabilità»: farsi annunciatori della salvezza per tutti e per tutto il mondo, «una salvezza annunciata non come un avvenimento, ma come una persona da conoscere». In questo desiderio di incontro personale con il Cristo si riconoscono i cristiani di ogni tempo. Tutti, ha detto Bartolomeo, pregano con le parole: «Marana-Thà, vieni Signore Gesù!». Nella Chiesa dei primi secoli, ha ricordato, «questa affermazione risuonava nelle catacombe, nei luoghi del martyrium, era incisa sulle tombe dei martiri, risuonava nelle ore del dolore e ha continuato a risuonare lungo la storia del cristianesimo, e più che mai risuona oggi in troppe aree del mondo e soprattutto in Medio oriente». Ma, ha concluso il patriarca, «per poter gridare anche noi “Vieni Signore Gesù” con i nostri fratelli assetati di pace, dobbiamo come Chiese attraversare una metànoia, una conversione intrinseca, un cambio radicale di mentalità, un profondo ravvedimento, ed essere capaci come cristiani di attuare ciò che in sintesi ci richiama il libro dell’Ap o calisse: ascolto, conversione e testimonianza profetica». E per essere davvero testimoni, i cristiani devono mostrare agli altri «una vera koinonìa». Solo allora «possiamo offrire acqua viva a chi ha sete, acqua che non ha fine, acqua di pace in un mondo senza pace».

© Osservatore Romano - 22 settembre 2016

Preghiera Ecumenica dei Cristiani nella Basilica Inferiore di San Francesco, 20.09.2016

Cerimonia conclusiva in Piazza San Francesco, 20.09.2016

Lettura e Firma dell’Appello per la Pace