Ponti di dialogo in Egitto

1 mani verso il cielo mediodi NICOLA GORI

Un ponte di dialogo che deve far fronte al crescente fanatismo e fondamentalismo, in un Paese a grande maggioranza musulmana: è il ruolo che in Egitto si è ritagliata la Chiesa copta cattolica, i cui vescovi hanno compiuto nei giorni scorsi la visita ad limina apostolorum . In questa intervista all’Osservatore Romano, il patriarca Ibrahim Isaac Sedrak parla della necessità di testimoniare i valori umani e cristiani, puntando su una forte presenza soprattutto in ambito educativo e sanitario.

Quali sono le principali sfide che dovete affrontare?
Anzitutto quella del dialogo. Quando parlo dell’Egitto non parlo da cristiano, ma da egiziano. La cittadinanza è importante per noi e cerchiamo di sottolinearla sempre, soprattutto nei rapporti con i nostri amici musulmani, in particolare con quelli di mentalità aperta che cercano di portare avanti il dialogo.

Com’è il vostro rapporto con loro?
Oggi le cose sono cambiate, c’è libertà di parola, anche se purtroppo non mancano forme di controllo. Certo, quando si parla della religione, si rischia di urtare la sensibilità delle persone e questo può portare a reazioni anche eccessive. Il popolo egiziano è molto sensibile, però quando vede che le persone usano la violenza sa distinguere bene. La maggioranza della popolazione non vuole questa strumentalizzazione e sa che il fondamentalismo non viene da Dio, non è una religione. È proprio a causa di esso che l’Egitto sta perdendo la sua identità, il suo carattere di Paese di antica civiltà. Per questo il popolo reagisce.

Dov’è possibile trovare un terreno d’incontro?
In ambito educativo. Purtroppo la società egiziana soffre di tante carenze in questo campo. Abbiamo più del quaranta per cento di analfabeti. Il problema principale è che a causa della mancanza di lavoro i genitori non mandano i figli a scuola, ma li fanno lavorare.
Cosa possiamo fare?
Certo, le scuole cattoliche aiutano molto in questo senso, ma raggiungono solo alcuni settori della società. In questi istituti viene organizzato un cours de vie (“corso di vita”), nel quale sono presentati i valori umani e cristiani condivisi, e su questi si riflette e si discute con i bambini. I musulmani non vivono questa esperienza come una evangelizzazione diretta: si sentono trattati con rispetto e non con ipocrisia. E ciò è importantissimo. Ma accanto all’analfab etismo tout court c’è l’analfab etismo religioso. Nell’alto Egitto, una zona molto povera e trascurata, sono attivi i fratelli musulmani. Nel passato ci sono stati accordi tra i governi e la fratellanza. Quest’ultima non doveva occuparsi della politica, ma poteva creare delle scuole interne dove si insegnavano tante cose contro il Paese e la religione stessa. Hanno così formato generazioni che non pensano e non si pongono delle domande, ma sono chiuse al dialogo. Questo crea il fanatismo che al momento giusto viene fuori. Devo dire che caratterialmente gli egiziani sono pacifici, però quando si tocca la religione sono molto sensibili. Noi cristiani egiziani sappiamo come comportarci nel parlare della religione e quali sono i temi condivisi su cui dialogare.

A questa situazione si sommano i problemi provocati dalla crisi economica. Con quali conseguenze?
La crisi economica non fa altro che aumentare le difficoltà. Anche il turismo non decolla. Non c’è lavoro, non c’è sviluppo industriale. L’aumento della popolazione pone nuove sfide. Abbiamo ogni anno un milione e mezzo di nascite. Ciò comporta che a scuola ci sono classi di centoventi bambini. Impossibile imparare in queste condizioni. Sono problemi concreti che richiedono risposte. La Chiesa fa la sua parte. La scuola cattolica è per tutti, l’atmosfera che vi si respira è tranquilla. Gli educatori sono reclutati in maniera obiettiva. Al contrario, le scuole statali non sono in grado di soddisfare il bisogno educativo e quindi i piccoli per la loro formazione dipendono soprattutto dalla famiglia. Se uno viene da una famiglia di fanatici, la prima parola che rivolge a un ragazzo non musulmano è: tu sei cristiano, quindi sei un infedele. Questo crea un problema. Prima episodi del genere erano molto meno diffusi. C’era gente saggia che si opponeva a questo sistema e aveva il coraggio di prendere posizione. Oggi non ci sono più queste persone. Devo dire comunque che gli egiziani, al di là della religione, nella vita quotidiana vivono le stesse crisi e difficoltà. E lo si vede quando succede qualcosa di deplorevole, come l’attentato del dicembre 2016 alla chiesa copta ortodossa di San Pietro al Cairo, dove sono morte trenta persone: in quell’occasione non solo i cristiani hanno pianto le vittime, ma anche tanti musulmani che non condividono questi atti.

Come sono inseriti i cristiani nella società?
C’è una parola che non mi piace: condiscendenza. Si concede la libertà ai cristiani di vivere bene. Ma non è giusto dire così. Io sono egiziano, quindi non accetto questa concessione. Sono cittadino egiziano prima di esser musulmano o cristiano. Noi richiamiamo molto il concetto di cittadinanza. Il presidente Al Sisi parla bene della cittadinanza e della diversità. Più volte ripete che esse sono volute da Dio. Dobbiamo vivere insieme in quanto diversi. È il terzo anno che il presidente a Natale si reca dai cristiani ortodossi. Non è mai successo prima. Da noi manda dei rappresentanti. Riconosco che c’è un progresso nelle relazioni, anche grazie ai tanti musulmani che lavorano nei mezzi di comunicazione e mettono in chiaro questo. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che per cambiare la mentalità ci vuole tempo.

Qual è la realtà della Chiesa copta cattolica?
Siamo una parte della minoranza cristiana all’interno di una popolazione di circa novantuno milioni di persone per lo più musulmane. La Chiesa cristiana più grande numericamente è quella copta ortodossa, che conta circa dodici milioni di fedeli. I cattolici sono quasi duecentocinquantamila e lo stesso numero sono i protestanti. Queste tre Chiese hanno un consiglio comune per far sentire la loro voce al governo e alla popolazione. Come copti cattolici abbiamo un sinodo composto dal patriarca e da sette vescovi, ai quali si aggiunge il patriarca emerito, cardinale Antonios Naguib. C’è il progetto di aumentare il numero dei vescovi presenti nel sinodo. Malgrado l’esiguo numero di cattolici, siamo ben considerati nella società per il lavoro svolto in ambito educativo, umanitario e caritativo. Abbiamo centosettanta scuole cattoliche e molti ospedali. Dato che la nostra Chiesa copta rappresenta la maggioranza dei cattolici, il suo patriarca è il presidente non solo del sinodo ma anche della Conferenza episcopale egiziana, composta dai vescovi copti e da quelli degli altri riti, cioè latini, greco-melchiti, armeni, caldei, siriaci. La nostra Chiesa ha anche due congregazioni religiose: le suore egiziane del Sacro Cuore e le suore copte dei Sacri Cuori di Gesù e Maria.

Come si è svolta la visita ad limina?
Con la visita ad limina abbiamo conosciuto di più il Vaticano e i dicasteri. Abbiamo celebrato la messa con Papa Francesco nella cappella della Casa Santa Marta e lo abbiamo incontrato per più di un’ora. Si sente che il Papa è un uomo che sa ascoltare e si mette in sintonia con la persona che ha davanti. In Egitto è stimato molto non solo dai cattolici, ma da tutta la popolazione. Più volte abbiamo espresso il desiderio che venga nel nostro Paese. Questa volta gli abbiamo consegnato una lettera di invito da parte del sinodo: sarebbe veramente una benedizione per noi, come fu la visita di Giovanni Paolo II , che venne accolto calorosamente da tutti gli egiziani, anche dai musulmani.

© Osservatore Romano - 12 febbraio 2017