Una strada aperta

croce cristianidi GRIGORIOS LARENTZAKIS

Per determinare la vera importanza della “levata” delle scomuniche, occorre comprendere la portata che avevano all’epoca e l’effetto che intendevano ottenere. Lo spunto per i tristi eventi di allora, al tempo in cui erano Patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario e Papa di Roma Leone IX (1049-1054), venne dato dalle tensioni politico-ecclesiastiche e politiche, specialmente nel sud dell’Italia. Il cardinale Umberto di Silva Candida, sostenitore del movimento di riforma di Cluny, vi svolse un ruolo centrale.
Era a capo di una delegazione che, a Costantinopoli, doveva svolgere delle trattative con l’imperatore e con il Patriarca per la difesa comune contro i normanni. Il modo di procedere del cardinale Umberto, a Costantinopoli, ferì i sentimenti dei suoi interlocutori, che quindi reagirono con ritegno. Il cardinale ritenne che l’accoglienza da parte del Patriarca non fosse sufficientemente dignitosa, perse la pazienza e, pur sapendo della morte del Papa, depose sull’altare di Hagia Sophia lo scritto, con il quale emise la scomunica contro il Patriarca (16 luglio 1054). Umberto «addirittura accusò i bizantini di aver cancellato il Filioque dal Credo!». Questa scomunica è considerata illegittima anzitutto perché il Papa era morto e poi perché il cardinale non aveva ricevuto da lui nessun mandato in tal senso. Successivamente, il 24 luglio, un sinodo del Patriarca Michele Cerulario scomunicò l’autore di tale scomunica e tutti coloro che erano d’accordo con essa. Non si trattò dunque di una scomunica ecclesiastica di una metà della Chiesa nei confronti dell’altra metà e viceversa. Da entrambe le parti è ormai sempre più forte la convinzione storicamente corretta che i tristi eventi e le mutue scomuniche dell’anno 1054 non intendevano causare, e di fatto non causarono, uno scisma definitivo tra Oriente e Occidente. Quando si sia compiuta la separazione definitiva tra le nostre Chiese non è chiaro e ritengo che non esista una data ufficiale convincente di un evento che abbia potuto influire sul cambiamento radicale dei rapporti in modo tale da non rendere più possibile una communio. Nemmeno i tragici eventi della quarta crociata nell’anno 1204 a Costantinopoli possono essere presi formalmente come data del grande e definitivo scisma. Anche al “concilio dell’unione” di Ferrara-Firenze (1438- 1439) i rappresentanti delle Chiese Orientale e Occidentale parteciparono come interlocutori a pari titolo e non come accusatori e accusati! L’Istruzione della congregazione vaticana di Propaganda fide del 5 luglio 1729 (Mansi, 46, 99-104) vietò qualsiasi comunione liturgica e sacramentale con i cristiani ortodossi d’Oriente. Pertanto, ritornare alla casa del Padre sotto il Papa rimaneva l’unica possibilità di ripristino dell’unità. Questa decisione negativa della congregazione potrebbe dunque essere una data probabile della spaccatura assoluta, ecclesiastico-sacramentale, ovvero del grande scisma tra le nostre Chiese? La reazione dell’Oriente giunse vent’anni dopo. Nel 1755 i patriarchi ortodossi presero una decisione sinodale analoga, ossia che i sacramenti della Chiesa cattolica romana, soprattutto il battesimo, non erano validi. È dunque questa data del XVIII secolo a segnare, da parte ortodossa, lo scisma ecclesiastico e sacramentale definitivo tra le due Chiese? La risposta fu data negli anni successivi dalle Chiese ortodosse: si sa per certo che in diversi tempi il battesimo di cattolici romani è stato riconosciuto come battesimo vero e valido e che quanti entravano a far parte della Chiesa ortodossa non venivano ribattezzati, prassi che, giustamente, viene osservata ancora oggi! Quindi, né la prima data (1729), né la seconda (1755) possono essere considerate quelle dello scisma definitivo. Sarebbe meglio parlare di un graduale e profondo allontanamento delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, che però ha creato la dolorosa realtà di una akoinonesìa, cioè di una non communio! A ogni modo, è questa la cosa importante da precisare e da accettare: la data del 1054 e le scomuniche di quell’anno a Costantinopoli vanno escluse come data della divisione definitiva tra le nostre Chiese. Che cosa significa quindi la “levata” delle scomuniche dell’anno 1054? Essa comporta di fatto un cambiamento nella storia dei rapporti tra le nostre Chiese. L’ecumenismo del ritorno fu mantenuto a lungo, addirittura fino al Papa del concilio, Giovanni XXIII. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora vi reagì anzitutto con un messaggio per il nuovo anno, il 1° gennaio 1959. Così il Patriarca fece la prima proposta ufficiale d’incontro tra i capi delle Chiese cristiane e di cooperazione con la Chiesa cattolica romana «in spirito di uguaglianza, giustizia, libertà spirituale e rispetto reciproco». Lo stesso anno, il 17 marzo 1959, Atenagora inviò a Roma, presso Giovanni XXIII, l’allora arcivescovo di America Jakobos. Tra le altre cose, l’arcivescovo disse al Papa: il Patriarca auspica che l’antico invito al ritorno e alla sottomissione per l’unità della Chiesa possa non essere ripetuto. Il Papa rispose: «L’unione sarà unione dei cuori. Unione della preghiera. Unione come frutto della ricerca l’uno dell’altro. Se non si realizza il motto della rivoluzione francese, libertà, uguaglianza fraternità, non ci saranno né la pace tra i popoli, né l’unione tra le Chiese. Trasmetta tutto ciò a Sua Santità il Patriarc a » . Perché ad oggi questi atti e queste osservazioni dei capi delle nostre Chiese all’interno delle stesse non sono stati quasi percepiti e nemmeno dichiarati come linea ufficiale, ovvero applicati in modo coerente? Non dobbiamo però mostrarci ingrati. Viviamo in un tempo di movimento ecumenico e di dialogo. Celebriamo anche i cinquant’anni del decreto sull’ecumenismo del concilio Vaticano II, con il quale molte cose sono state migliorate. Sebbene le mutue scomuniche dell’anno 1054 non siano state causa dello scisma definitivo tra le nostre due Chiese, resta il fatto che tali eventi hanno gravato fortemente sui rapporti tra le due Chiese, quella d’O riente e quella d’Occidente, come “simbolo della divisione”. Occorreva dunque fare qualcosa per rendere possibile l’apertura della strada sbarrata. Pertanto, da Costantinopoli giunse, dal Patriarcato ecumenico, la proposta anche formale di “l e v a re ” o superare le scomuniche dell’anno 1054. La proposta fu accolta e fatta propria da Paolo VI. Il gesto proposto di purificare la storia attraverso un atto opportuno era un passo grande e coraggioso che avrebbe facilitato decisamente l’u l t e r i o re cammino ecumenico delle due Chiese. Ma oggi sappiamo ancora come ha avuto inizio quel processo, come è proseguito e quale significato ha quell’evento storico? I grandi protagonisti, Giovanni XXIII, Paolo VI e il Patriarca ecumenico Atenagora non hanno avuto vita facile nemmeno all’interno delle loro Chiese. Il 7 dicembre 1965, alla vigilia della conclusione del concilio Vaticano II, con un atto molto simbolico, le scomuniche furono “levate” da Paolo VI e da Atenagora contemporaneamente a Roma e a Costantinopoli. I testi che hanno preparato tale evento — il breve papale Ambulate in dilectione, il tòmos patriarcale e la dichiarazione congiunta — mostrano la ferma volontà delle Chiese sorelle di non limitarsi a parlare, ma di agire. A partire da questa convinzione, dichiarano «di comune accordo: [...] b) [di] dolersi ugualmente e togliere dalla memoria e dal mezzo della Chiesa le sentenze di scomunica che ne sono conseguite, e il cui ricordo costituisce fino ai nostri giorni di ostacolo al riavvicinamento nella carità, e votarle all’oblio». Con ciò non veniva ripristinata la piena comunione ecclesiale. Le due Chiese ne erano consapevoli sin dall’inizio. Tuttavia, si è così ottenuto, sotto l’aspetto sia teologico sia ecclesiologico, un atteggiamento fondamentalmente positivo da parte di entrambe le Chiese, che poi ha reso possibile il dialogo ecumenico, teologico, con il chiaro obiettivo: «di giungere ad una intelligenza e a una espressione comune della fede apostolica e delle sue esigenze», per realizzare la piena koinonìa ecclesiale e sacramentale «che esisteva tra loro nel corso del primo millennio della vita della Chiesa». Questo auspicio viene continuamente espresso dalle guide delle nostre Chiese. Il Patriarca Atenagora: «Incamminiamoci insieme verso la gloria del santo altare comune ». E il Papa: «Siamo decisi ad andare avanti con avveduta audacia e fare tutto il possibile perché giunga il giorno in cui possiamo presentarci insieme all’altare del Signore ». Ci dispiace molto che questo cammino sia stato interrotto. Lo ha deplorato anche il professor Ratzinger, che però purtroppo, anche come Papa Benedetto XVI non ha potuto creare dei presupposti capaci di portare alla realizzazione della piena comunione. Benedetto XVI e il Patriarca ecumenico Bartolomeo a Costantinopoli, il 30 novembre 2006, nella festa patronale del Patriarcato, in una dichiarazione congiunta hanno osservato che dalla “levata” non sono state tratte tutte le conseguenze possibili, senza però indicarle. Quali potrebbero essere? Vorrei presentare qui solo alcune brevi riflessioni. Anzitutto, occorre purtroppo osservare che i fatti storici di allora (1054), come anche la stessa “levata” della scomunica di cinquant’anni fa, sono praticamente sconosciuti. Si parla solo in modo generalizzato e acritico del grande scisma dell’anno 1054, e così è stato creato un solido muro divisorio temporale e contenutistico, ma anche psicologico, che è difficile superare. Per questo è indispensabile un lavoro di chiarimento. Occorre promuovere il processo di recezione. È una sfida per le nostre facoltà di teologia con i loro piani di studio, ma anche con una cooperazione ecumenica intensa. Quando si osserva che attraverso la “levata” il simbolo della divisione è diventato simbolo di amore (così il professor Ratzinger) e che in tal modo è stato eliminato l’atto giuridico e si è giunti a una situazione scismatica della akoinonesìa, cioè della comunione sacramentale piena non praticata (così il professor Pfeidas), allora ci si domanda in che modo si possa promuovere il cammino verso il superamento del reale allontanamento interiore. Pertanto, occorrono con urgenza misure che aiutino a costruire fiducia. A livello delle comunità con comunità gemelle, a livello diocesano con diocesi gemelle, a livello delle facoltà teologiche con facoltà gemelle, con tutte le conseguenze. Programmi più precisi possono essere elaborati in loco. Le società attuali non sono più omogenee, né dal punto di vista etnico né da quello religioso. Per questo occorrono anche nuove forme di pastorale ecumenica. Dalle preghiere comuni per i problemi importanti della gente d’oggi (pace, conservazione del creato) fino alla pastorale sacramentale, come per esempio riguardo all’importante tema dei matrimoni che uniscono confessioni diverse. Di grande importanza storico-teologica e quindi ecumenica sarebbe il riconoscimento comune del concilio di Costantinopoli (879- 880), presieduto dal Patriarca Fozio e al quale presero parte i delegati del Papa, che di fatto all’epoca riconobbe quel concilio come ottavo concilio ecumenico comune. L’unità nella molteplicità, decisa allora di comune accordo, e il particolare rilievo dato alla versione originale della professione di fede del secondo concilio ecumenico di Costantinopoli (381) di certo significherebbero accelerare il cammino ecumenico. Grande rilievo ecumenico avrebbero il ricordo e la recezione dell’affermazione di Paolo VI a Costantinopoli nel luglio 1967, secondo cui i gerarchi e le guide delle nostre Chiese devono riconoscersi reciprocamente come pastori della parte del Corpo di Cristo a noi affidata. Profonde conseguenze ecumeniche avrebbe il rafforzamento della sinodalità nella Chiesa cattolica romana, così come annunciato da Papa Francesco, laddove da parte ortodossa ovviamente l’ordine sarebbero le Chiese autonome nella loro struttura sinodale e con il Vescovo di Roma come primus inter pares con compiti e mandati concreti per la Chiesa universale. L’affermazione di Atenagora dinanzi a Paolo VI, a Costantinopoli, nel luglio 1967: «Ed ecco, abbiamo qui tra noi, contro ogni aspettativa umana, il primo di noi secondo l’onore, colui che “p re s i e d e nell’a m o re ”» è molto importante. Viene accettata appieno nel suo contenuto dal Patriarca ecumenico Bartolomeo, e per Roma, secondo il professore Ratzinger, è sufficiente. Altrettanto importante è l’osservazione di Papa Francesco a Gerusalemme, secondo cui il ripristino della comunione non può mai significare una subordinazione e sottomissione dell’uno all’a l t ro . Spero nel profondo che la Commissione internazionale per il dialogo teologico ufficiale delle nostre Chiese sorelle prenda come punto di partenza le affermazioni qui citate dei capi delle nostre Chiese per trovare una formulazione adeguata, accettata da entrambe le parti. Ulteriori ricerche e analisi e mercanteggiamenti apologetici non porteranno a nuove scoperte che finora non siano mai state approfondite e che non conosciamo già. La strada è aperta e ci mettiamo al servizio Roberto Parmeggiani, «Concilio» (1963 - dopo 1965) dell’ecumenismo.

© Osservatore Romano - 5 dicembre 2015