Pioniera dell’ecumenismo laicale

vingianiA colloquio con Maria Vingiani alla vigilia del novantacinquesimo compleanno

di MARCO RONCALLI

Le storie della Chiesa contemporanea la citano raramente. E così quelle sul Vaticano II: del resto, non fu nemmeno tra le uditrici laiche invitate a seguirne i lavori. Eppure il suo impegno ha accompagnato non solo parecchie stagioni ecclesiali e il concilio, ma anche la loro recezione e quanto è seguito. Tra le pioniere italiane del dialogo interconfessionale e interreligioso — fondatrice del Segretariato attività ecumeniche (Sae), l’associazione laica sviluppatasi in forma pubblica dal 1964, ma le cui basi erano state preparate nei quindici anni precedenti — ha attraversato quasi tutto il Novecento ed è arrivata a superarlo.
Centrale, nella sua vita, il passaggio che, dal crocevia tra occidente e oriente costituito dalla sua Venezia, ha avuto come approdo voluto la Roma del concilio. Donna di nuovi ponti costruiti cementando relazioni con i rappresentanti delle diverse Chiese e poi con i fratelli ebrei. Ora, in questo tempo di abbracci a lungo prefigurati, afferma di sentirsi «commossa, contenta, felice». Si riferisce «al recente abbraccio fra Papa Francesco e il patriarca Cirillo», ma anche ai tanti altri che hanno visto la cattolicità della Chiesa esprimersi in un anelito all’unità rispettoso delle differenze. Stiamo parlando di Maria Vingiani, che alla vigilia del suo novantacinquesimo compleanno — il 28 febbraio — dice: «Ecco questo io ho sperato, ho creduto di poter vedere e ho visto. Tutti gli sforzi sono andati in questa direzione. Lo imponeva il problema della comunione. Bisognava arrivarci». E aggiunge: «È la volontà del Signore. Certo resta ancora da fare, e si deve andare avanti nella condivisione dei problemi fra tutti i credenti, non però con la fretta di chi vuole tagliare un traguardo a ogni costo. Ma siamo finalmente a una tappa avanzata. Anche grazie a Papa Francesco che ha il cuore spalancato, e una linea culturale nella sostanza vicina a quella di Giovanni XXIII, capace di segnare svolte. Se poi mi guardo indietro vedo un lungo cammino di piccoli passi, di progressi, anche se non tutti ricordano da dove si è partiti». Lei però, questa donna tenace, quel punto di partenza l’ha ben presente. Rammenta che da ragazza a Venezia non sopportava che «le comunità cristiane» — cattolica, greca ortodossa, valdese, metodista, luterana, anglicana — «pur vivendo quasi gomito a gomito nel centro storico di Venezia e proclamando lo stesso Vangelo» fossero «in polemica tra loro», avvertendo questo fatto come un’«intollerabile contraddizione». Da qui anche l’«orientamento che la spinse a laurearsi a Padova nel 1947 con una tesi in storia delle religioni (su testi della disputa luterana), ma già consapevole della necessità di un incontro come esperienza di fede e non solo oggetto di studio. In quell’anno, il patriarca Piazza, che aveva già ceduto alle sue richieste di poter avvicinare gli ambienti protestanti, poco dopo averla redarguita con un accorato «ti vól proprio perderte?», benediceva con un biglietto il suo «santo apostolato». Così torna a raccontare Maria Vingiani. Senza dimenticare di quel periodo — in cui «si parlava ancora di sette, di scismatici, di ebrei che avevano ucciso Gesù, ecco si è partiti da lì» — la presenza amica e solidale di sacerdoti futuri vescovi, come Alessandro Gottardi e Agostino Ferrari Toniolo, l’appartenenza alla Fuci, il debito con Maritain per il suo Umanesimo integrale e con l’abbé Couturier per i sussidi di preghiera per l’unità dei cristiani che le arrivavano da Lione. Dalla Francia il 15 marzo 1953 giunge a Venezia anche il nuovo patriarca, Angelo Giuseppe Roncalli, ex nunzio a Parigi, che di lì a poco chiama come suo segretario don Loris Capovilla, il porporato oggi ultracentenario. Per la Vingiani divisa tra impegno ecclesiale-ecumenico e politico-culturale come assessore alle Belle arti di Venezia (quando favoriva scambi persino oltre la cortina di ferro) si aprono nuovi orizzonti. È lei ad accompagnare il patriarca e il segretario, ugualmente attratti dalla causa dell’unità, a visitare i responsabili delle diverse comunità protestanti veneziane. Non solo. Alla Vingiani non sfugge certo l’obiettivo della lettera pastorale del 1956 per il quinto centenario della morte di san Lorenzo Giustiniani, ovvero l’invito ai cattolici a familiarizzare con la Bibbia, indispensabile per il lavoro ecumenico. Poi l’elezione di Giovanni XXIII e l’avvio del concilio segnano una svolta anche nella sua vita. Incoraggiata da Capovilla si trasferisce a Roma dove resterà tutto il periodo del Vaticano II sin dall’annuncio, rinunciando all’attività politico-culturale per l’ecumenismo. Così nel 1959, all’annuncio del concilio, quello che di fatto è già il Sae trasloca insieme a lei in un appartamento vicino al Vaticano. Con la benedizione di Papa Giovanni e la fiducia del cardinale Agostino Bea partecipa a iniziative rilevanti e dibattiti. Studia, si documenta, riceve laici, monaci, prelati. Accoglie per esempio i fratelli di Taizé Roger Schutz e Max Thurian, dignitari ortodossi come il vescovo Cassien Bezobrazov, il pastore metodista Hébert Roux, esperti cattolici, giornalisti di ogni credo. Soprattutto, Maria si trova talora a rendere possibile quello che altri vogliono impedire. Per conto del patriarca melchita Maximos IV fa arrivare nelle mani del Papa testi, più volte inviati ma mai recapitati, che Giovanni XXIII doveva conoscere «per ristabilire nella gerarchia ecclesiastica dei padri conciliari, prima dell’ap ertura del concilio, il principio della priorità dei patriarchi sui cardinali». Oppure, «per vie legittime, pur se improprie » — parole poi usate dal segretario del cardinale Bea, padre Schmidt — il 13 giugno 1960, rende possibile l’udienza cancellata (con il pretesto dei numerosi impegni del Papa e a sua insaputa) tra Giovanni XXIII e Jules Isaac da lei conosciuto a Venezia nel 1957: «Andai a trovarlo all’hotel Commodore. Lo rassicurai. E ci fu proprio l’incontro che mise al bando la cultura del disprezzo, avviando le relazioni approdate, fra molte difficoltà, nel 1965, alla Nostra aetate. In precedenza ero tornata a rassicurare Isaac ormai morente a casa sua, a Aix-en-Provence, il 31 agosto 1963. Lo tranquilizzai sul fatto che Paolo VI era pronto a continuare l’opera del precedessore». Certo, ora dovremmo dar conto di quanto ha fatto nella lunga presidenza del Segretariato: dalla prima sessione di formazione nel 1964 su «Ecumenismo. Vocazione della Chiesa», sino a quando nel 1997 ha lasciato la guida dell’associazione di cui ora è presidente emerita, continuando a offrire la sua esperienza. Ma bisognerebbe ripercorrere i suoi passi e le tappe del Sae: dal 1964 al 1967 alla Mendola, dal 1968 al 1970 a Camaldoli, dal 1971 al 1974 a Napoli, dal 1975 al 1998 nuovamente alla Mendola, dal 1999 al 2015 a Chianciano — quest’anno la consueta sessione estiva si svolgerà ad Assisi in luglio, tema: «”Quello che abbiamo veduto e udito noi l’annunciamo” (1 Giovanni, 1, 3) Tradizione, riforma e profezia nelle Chiese». Ci saranno ancora occasioni per farlo, districandoci tra il suo vissuto personale e quello dell’associazione (se sarà possibile), dopo aver scandagliato le fonti, i suoi archivi, i suoi epistolari, anche se lei minimizza «Non ho fatto niente di clamoroso. È il fuoco del vangelo, non io, non noi, non le istituzioni». Restano in ogni caso, tutti i significati di un’intuizione, di una vocazione, di una lunga avventura umana e spirituale. Quella di una donna e laica che, per usare la sintesi di un riconoscimento tributatole tre anni fa, «in un tempo nel quale il cammino dell’ecumenismo non era certo così “naturale e accettato” ha osato strade nuove e ha saputo realizzare strutture di incontro e di confronto fraterno, dove ciascuno potesse confrontarsi in libertà e senza pregiudizi».

© Osservatore Romano - 28 febbraio 2016