Vaticano Nel processo di riforma di Papa Francesco. Un nuovo ecumenismo

brian farrell(Brian Farrell, Vescovo segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani) Le parole recenti di Papa Francesco sull’ecumenismo, pronunciate nel suo discorso di Natale alla Curia romana il 21 dicembre 2017, offrono una cornice adatta per inquadrare gli aspetti che qui desidero evidenziare. Il Santo Padre ha iniziato col ricordare che la ricerca dell’unità di tutti i cristiani «è un’esigenza essenziale della nostra fede, un’esigenza che sgorga dall’intimo del nostro essere credenti in Gesù Cristo». Essa è uno degli «impegni irreversibili» della Chiesa.
Il Papa introduce poi un criterio guida. Senza ricorrere alla nota terminologia del «dialogo della verità» e del «dialogo della vita», fa comunque una chiara distinzione tra di essi e, in un certo senso, adotta un’opzione preferenziale per il «dialogo della vita». Egli è convinto che le differenze teologiche ed ecclesiologiche che ancora dividono i cristiani saranno superate solo lungo un «cammino» condiviso. Quando, tra cristiani, «ci incontriamo come fratelli, preghiamo insieme, collaboriamo insieme nell’annuncio del Vangelo e nel servizio agli ultimi siamo già uniti». Poi indica il filo conduttore di questo viaggio condiviso: «per sciogliere i nodi delle incomprensioni e delle ostilità, e per contrastare i pregiudizi e la paura dell’altro che hanno impedito di vedere la ricchezza della e nella diversità e la profondità del Mistero di Cristo e della Chiesa che resta sempre più grande di qualsiasi espressione umana».
Il cammino ecumenico proposto da Papa Francesco è un viaggio da compiere insieme, cattolici, ortodossi e protestanti, per superare gli ostacoli e per cercare l’unità all’interno della legittima diversità tra le tradizioni cristiane. Senza rinunciare al fine ultimo dell’ecumenismo, consistente nella comunione visibile di tutti i battezzati, ma rendendosi conto che quell’obiettivo, che sarà alla fine un dono di Dio, ha bisogno di un clima ricettivo e di un terreno fertile, Papa Francesco vuole concentrarsi sul cammino stesso. I cristiani potranno avvicinarsi gli uni agli altri se daranno priorità agli elementi essenziali che già li uniscono e se non continueranno a servirsi delle loro differenze come pretesto per continuare a vivere e ad agire separatamente. Come primo passo, quindi, le varie comunità cristiane non dovranno più competere l’una con l’altra, ma impegnarsi a lavorare insieme per realizzare l’obiettivo fondamentale: la predicazione del Vangelo a ogni creatura. Questo è l’ecumenismo ai fini della missione.
Un particolare strumento al servizio di questo peregrinare ecumenico è il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Sarebbero necessarie intere biblioteche per raccontare la storia dell’impegno ecumenico del Pontificio consiglio a partire dalla sua istituzione nel 1960. Oltre a favorire e a organizzare relazioni inter-ecclesiali, visite, celebrazioni, incontri ecumenici, il Pontificio consiglio porta avanti diciassette dialoghi bilaterali formali e prende parte a diverse attività multilaterali. Poiché le cause e le conseguenze teologiche della divisione, così come la natura e la metodologia del dialogo, sono diverse per le Chiese in oriente rispetto a quelle riguardanti le Chiese in occidente, il lavoro del Pontificio consiglio è strutturato in due sezioni: la sezione orientale e la sezione occidentale. Nei giorni scorsi, «L’Osservatore Romano» ha pubblicato una serie di articoli sullo stato attuale e sulle sfide dei vari dialoghi bilaterali. Qui di seguito esporrò alcune osservazioni generali, nella convinzione che il cambiamento di prospettiva sull’ecumenismo suggerito da Papa Francesco rappresenti la migliore opportunità per realizzare un sostanziale progresso nella ricomposizione dell’unità dei cristiani.
Il 2017 ha visto il Pontificio consiglio pienamente coinvolto nella commemorazione del cinquecentesimo anniversario della Riforma. Nel 1521, Papa Leone x scomunicò pubblicamente Lutero come eretico. Il successore di Leone, Papa Francesco, quattrocentonovantacinque anni dopo si è recato a Lund, in Svezia, per commemorare solennemente, insieme alla Federazione luterana mondiale, il quinto centenario della Riforma, nel luogo in cui si riunì per la prima volta, nel 1967, la Commissione di dialogo cattolica-luterana. Com’è stato possibile questo? È avvenuto dopo anni di preparazione che hanno condotto alla stesura di tre testi: il documento fondamentale intitolato Dal conflitto alla comunione, il Servizio liturgico di preghiera preparato in maniera congiunta appositamente per l’occasione (ora chiamato Liturgia di Lund) e la Dichiarazione comune firmata da Papa Francesco, a nome della Chiesa cattolica, e dal vescovo Munib Younan, a nome della Federazione luterana mondiale. Tutti e tre i documenti sottolineano i tre sentimenti che hanno animato la commemorazione comune: la gratitudine verso Dio per i risultati positivi della Riforma, il pentimento per la divisione della Chiesa, la speranza per una nuova era di collaborazione nel servizio e nella missione.
Il concilio Vaticano II aveva riconosciuto che, nella storia della Chiesa, le divisioni sono state causate «per colpa di uomini di entrambe le parti» e che coloro «che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità, non possono essere accusati di peccato di separazione» (Unitatis redintegratio, 3). Questa ammissione aprì la strada a una profonda purificazione della memoria, spingendosi oltre l’unilateralità del modo in cui, per secoli, cattolici e protestanti avevano presentato la Riforma, ciascuno dal proprio punto di vista. La memoria sociale funziona stereotipando l’avversario e selezionando quegli aspetti della storia che confermano la nostra visione di noi stessi, come “i buoni” e come coloro che sono stati ingiustamente trattati e feriti. Ascoltare attentamente l’altro aiuta a correggere percezioni unilaterali e a riconoscere che, dietro lo scontro, è rimasta una sostanziale unità nella diversità. Il dialogo ecumenico è uno sforzo teso a vedere le cose come le vede l’altra parte e a raccogliere il bene presente in ogni tradizione, imparando gli uni dagli altri. Non si tratta di un mero esercizio di cordialità, né di ingenuità. La purificazione della memoria può essere raggiunta solo partendo da una più profonda comprensione della verità delle cose e superando le deformazioni della verità tramandate di generazione in generazione in difesa dell’identità e dell’autoaffermazione di ciascuna confessione.
Sulla base di solidi studi, i cattolici sono arrivati a riconoscere il giusto diritto che ebbe Lutero di indignarsi davanti all’idea che la salvezza eterna delle anime, tra cui prima di tutto la sua, fosse subordinata a un “sistema” simile a un baratto, comprendente le indulgenze, gestito da ecclesiastici che non erano sempre esempi di buona condotta e di competenza teologica. Non sorprende che le sue critiche, che puntavano al cuore di quel sistema, abbiano suscitato una vigorosa reazione. I luterani sono arrivati a riconoscere che gli eccessi di temperamento di Lutero e gli sconvolgimenti religiosi, sociali e politici da lui innescati hanno condotto non alla riforma della Chiesa, ma alla sua divisione. La dichiarazione congiunta, firmata durante la preghiera comune a Lund, afferma: «Mentre il passato non può essere cambiato, la memoria e il modo di fare memoria possono essere trasformati». Questo, nel dialogo ecumenico, è il principio alla base del processo di “purificazione della memoria”: la ricerca di una comprensione e di un giudizio più veritieri delle profonde divergenze che hanno dato origine alla separazione, nel difficile ma irreversibile processo volto a superarle.
Il processo si trova tuttavia a dover affrontare serie sfide. Un forte peso lo hanno, per esempio, i concetti divergenti di unità all’interno dei vari dialoghi. Poco più di cinquant’anni fa, Unitatis redintegratio poteva affermare: «Quasi tutti però, anche se in modo diverso, aspirano a una Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale e mandata al mondo intero» (n. 1). Trent’anni dopo, san Giovanni Paolo II, nella sua grande enciclica sull’ecumenismo, ha esordito con l’affermazione ottimistica: «L’appello all’unità dei cristiani, che il concilio ecumenico Vaticano II ha riproposto con così appassionato impegno, risuona con sempre maggiore vigore nel cuore dei credenti» (Ut unum sint, 1). Questo ottimismo si basava sulla supposizione che tutti perseguissero lo stesso obiettivo chiaramente definito dell’unità dei cristiani. Non è più così.
Il Consiglio ecumenico delle Chiese, istituito nel 1948, aveva un concetto altrettanto chiaro dell’obiettivo del movimento ecumenico, ovvero l’unità piena e visibile di tutti i cristiani. Tuttavia, il documento più recente di Fede e costituzione, La Chiesa: verso una visione comune, presenta una vasta gamma di opinioni sull’obiettivo dell’ecumenismo, dimostrando che i cristiani di oggi non hanno più una visione comune di ciò che comporta l’unità. Se, da un lato, la Chiesa cattolica riconosce che l’unità non significa uniformità e che la diversità è un’espressione dei doni dello Spirito (una diversità riconciliata), dall’altro non può accettare una diversità che abbracci la contraddizione. Vi è una grande differenza di vedute su ciò che è legittima diversità e su ciò che è motivo di divisione della Chiesa. Tale disaccordo è un significativo ostacolo lungo il cammino.
Un’altra seria sfida nel dialogo ecumenico è rappresentata dalle questioni morali ed etiche emerse in molti contesti. Unitatis redintegratio non affrontava tematiche morali, non essendo, queste, problematiche all’epoca. Dopo un consenso quasi universale, la seconda metà del XX secolo ha visto una rivoluzione nel pensiero morale. Le posizioni mutate e mutevoli su questioni attinenti alla vita e alla sessualità umana mettono a dura prova le comunioni, a livello interno, e hanno sollevato nuove sfide sulla strada verso l’unità. In tempi non lontani, i cristiani concordavano sul fatto che il matrimonio fosse un’unione tra un uomo e una donna. Oggi, la questione delle unioni omosessuali è una delle problematiche etiche che dividono le società e le Chiese. Il risultato è una serie di fratture dolorose all’interno delle comunioni con le quali il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani è in dialogo. Data la considerevole importanza delle questioni morali ed etiche per l’unità dei cristiani, la commissione Fede e costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese, di cui la Chiesa cattolica è membro a pieno titolo, sta attualmente studiando il modo in cui le Chiese giungono a decisioni in campo etico. Anche il dialogo con la Comunione anglicana è impegnato in un progetto simile, nel tentativo di chiarire i processi attraverso i quali la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana sono pervenute alle loro rispettive posizioni. Tali questioni continueranno senz’altro a gravare sulle relazioni ecumeniche anche nel futuro.
È facile vedere le pagliuzze negli occhi degli altri. Ma che dire delle pagliuzze ecumeniche dentro gli occhi cattolici? In altre parole, che cosa, all’interno della Chiesa cattolica, è in grado di offrire una solida speranza al movimento teso al ripristino dell'unità? In non pochi casi manca una visione globale del compito ecumenico. Essendo il tutto superiore alla parte, come spiega Evangelii gaudium (234-237), l’impegno ecumenico richiede la capacità di contemplare e ammirare l’intera portata della salvezza di Dio all’opera in ogni luogo e in ogni tempo. Chiama i cattolici a vedere l’intero mondo cristiano come il loro habitat naturale e a imparare a condividere con gli altri cristiani la responsabilità legata al compito — mai terminato — dell’evangelizzazione e del servizio alla famiglia umana. Per molto tempo, la parte cattolica si è presentata come il tutto, con pesanti conseguenze sulle relazioni con gli altri cristiani e con le loro Chiese. Ancora oggi, una parte marginale del mondo cattolico non comprende che la cattolicità della Chiesa cattolica stessa è difettosa fintanto che i battezzati rimangono divisi. Anche alcuni circoli ortodossi sono reticenti nell’ammettere legami spirituali con i non ortodossi; e certi gruppi protestanti si presentano come l’unica vera Chiesa “restaurata”, in sostituzione delle Chiese storiche che, a loro avviso, si sono allontanate dal Vangelo. L’idea che una parte pretenda di essere il tutto è ancora una delle principali fonti di conflitto e di divisione nel mondo cristiano.
Molti dei prelati che arrivarono a Roma per il concilio Vaticano II nel 1962 avevano posizioni risolute sull’esclusivismo cattolico. Il miracolo è stato che, nell’arco di tre anni, la quasi totalità dei vescovi si è mossa verso un chiaro riconoscimento non solo del fatto che gli altri cristiani sono nostri fratelli e sorelle in Cristo in virtù del nostro battesimo comune e di altri elementi di grazia e di fede, ma anche del fatto che Dio si serve delle loro comunità ai fini della salvezza (cfr. Unitatis redintegratio, 3). In questo va ravvisato un vero e proprio cambiamento di prospettiva, che non è altro che il ritorno a un’ecclesiologia più marcatamente biblica, patristica, sacramentale. Il concilio non ha dunque inventato una nuova Chiesa o una nuova ecclesiologia; ha semplicemente riportato alla luce un’idea della vita e della missione della Chiesa più fedelmente radicata nella tradizione. Questa più ampia visione della lunga tradizione della Chiesa ha sfidato punti di vista parziali e unilaterali, richiamando la comunità cattolica, a ogni livello, al rinnovamento e alla riforma. Con tale cambiamento di prospettiva, si è aperta una porta rimasta chiusa a lungo, permettendo alla Chiesa cattolica di scendere in campo con determinazione nel movimento ecumenico.
Alla luce di quanto appena ricordato, è chiaro che gli sforzi che Papa Francesco sta compiendo per introdurre riforme nella vita e nel governo della Chiesa non generano una rivoluzione ecclesiologica, ma intendono attuare in maniera più fedele il cambiamento di prospettiva operato da Lumen gentium, Unitatis redintegratio e dagli altri documenti conciliari che parlano di ciò che la Chiesa è e di come dovrebbe organizzarsi per assolvere la sua missione. Gli sforzi di Papa Francesco si stanno muovendo nella direzione di una più ampia condivisione di autorità e di responsabilità: in altre parole, verso un vero esercizio della natura collegiale e sinodale della Chiesa, cum et sub Petro. Egli sta favorendo non una rivoluzione, ma la riappropriazione di alcune dinamiche che sono parte costitutiva della natura della Chiesa intesa come comunione e comunità: sinodalità e collegialità, rispetto delle strutture intermedie e discernimento pastorale. A cinquant’anni di distanza dal concilio, certi aspetti fondamentali della visione conciliare della Chiesa vengono presentati nuovamente come elementi di una riforma che non può più essere rinviata. Il fatto è che questo cambiamento di prospettiva è un processo in divenire, un lavoro in corso. Papa Francesco offre l’opportunità di accelerare alcuni aspetti della necessaria riforma e, dunque, di intensificare il ritmo del cammino ecumenico. Ciò ha significative ripercussioni sul movimento ecumenico. Tale rinnovamento, per quanto difficile, contribuisce a instaurare un nuovo clima di relazioni ecumeniche, anzi un nuovo ecumenismo: nuovo nell’attenzione rivolta alle realtà sul terreno, nuovo nel coraggio, nuovo nella disponibilità a mettersi in cammino, non da soli, ma insieme agli altri cristiani. Questo tipo di riforma della Chiesa cattolica è una delle principali fonti di speranza per l’ecumenismo del XXI secolo.
L'Osservatore Romano, 26-27 gennaio 2018

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2018/01/26