Siamo un solo gregge · La visita dell’arcivescovo Welby al Wcc ·

un solo greggeGinevra, 22. «Siamo uno con le nostre differenze e non molti che cercano di essere uno». Si chiama «ecclesiologia dai confini aperti» ed è la sfida ecumenica che le Chiese del terzo millennio si trovano ad affrontare, secondo l’arcivescovo di Canterbury e primate della

Comunione anglicana, Justin Welby, il quale ha aperto, nei giorni scorsi, a Ginevra una serie di incontri e cerimonie promosse dal World Council of Churches (Wcc) per celebrare il settantesimo anniversario dell’organismo ecumenico. Un anniversario che offre oggi un’occasione a tutto il movimento ecumenico per ripercorrere insieme i passi compiuti nel passato, fare il punto sui traguardi raggiunti e guardare al futuro per capire come le Chiese, insieme e solo insieme, vogliono porsi di fronte a un mondo che invoca pace e riconciliazione.

«Il dialogo teologico ha portato grandi frutti», ha esordito l’arcivescovo Welby nella sua Lectio al Wcc. Nel corso del ventesimo secolo abbiamo assistito a un importante riavvicinamento teologico e dottrinale tra le Chiese. Sono passati quasi venticinque anni, quando per la prima volta l’allora segretario generale del World Council of Churches parlò di “inverno ecumenico”. Tuttavia, «quell’inverno — ha spiegato l’arcivescovo Welby — seppe generare frutti importanti, accordi teologici che segnano ancora il passo del cammino delle Chiese verso l’unità. Una ricchezza di risultati ecumenici che spinse il cardinale Walter Kasper a scrivere un libro intitolato Harvesting the Fruits (“Raccolta dei frutti”)».

Molte, se non tutte, le divisioni nella Chiesa riguardano questioni di principio e di dottrina, questioni di potere e di autorità se non addirittura dispute territoriali. Sono questioni in cui spuntano le barriere che delimitano un territorio, definiscono identità. «Se da una parte le frontiere implicano una differenza», dall’altra — ha fatto notare l’arcivescovo Welby — «ci dicono che c’è l’altro, l’altra persona, l’altra cultura, l’altra razza, l’altra nazione». Tutto sta nel capire, dunque, come le Chiese vogliono vivere la «frontiera», se come spazio chiuso o porta aperta.

«I confini aperti — ha aggiunto il primate anglicano nella sua Lectio — consentono all’altro di essere parte di noi stessi. Permettono il movimento, esibendo non divisione ma diversità. Nella loro apertura, invitano all’incontro».


© Osservatore Romano   22.2.2018