Per uscire dalla notte della divisione

luciano-minguzzi-paolo-vi-atenagoradi KURT KOCH

Il motivo diretto del pellegrinaggio in Terra Santa di Papa Francesco è il ricordo dell’incontro tra Papa Paolo VIe il Patriarca ecumenico Atenagora di Costantinopoli, avvenuto il 5 e il 6 gennaio 1964 sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. Si incontravano allora per la prima volta dopo 525 anni i massimi rappresentanti della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa e, nella loro persona, due Chiese sorelle che sono divise da oltre nove secoli. La scelta di Gerusalemme come luogo dell’incontro testimonia la particolare sensibilità con la quale venne considerato questo evento storico.
Tale scelta aveva di fatti una duplice importanza. Innanzitutto, nelle relazioni tra ortodossi e cattolici, questo luogo non era gravato da un fardello storico così pesante come Roma e Costantinopoli; si poteva pertanto evitare l’i m p re s -sione che il Papa facesse un pellegrinaggio dal Patriarca ecumenico o che questo bussasse umilmente alla porta del Pontefice romano. Ma soprattutto, essendo Gerusalemme la culla del cristianesimo e quindi la città che unisce tutti i cristiani, si intendeva ritornare alle radici comuni per segnare al contempo un nuovo inizio nelle relazioni. Difatti, entrambi vollero sottolineare che si trattava di un pellegrinaggio alle origini della Chiesa e alle radici della fede. Questo primo incontro dell’epoca moderna tra il vescovo di Roma e il vescovo di Costantinopoli fu caratterizzato da molte dichiarazioni incoraggianti e gesti significativi. Il primo contatto avvenne presso la residenza della delegazione apostolica e si aprì con un lungo, caloroso abbraccio. Dopodiché, Papa PaoloVIe il Patriarca Atenagora si sedettero su due seggi di pari altezza e si intrattennero in un colloquio personale, alla conclusione del quale recitarono insieme il Padre Nostro, inginocchiandosi l’uno accanto all’altro. Il secondo incontro ebbe luogo il giorno successivo presso la sede del Patriarca grecoortodosso, dove venne letta, in maniera alternata, la preghiera di Gesù per l’unità dei suoi discepoli, dal brano del Vangelo di Giovanni 17. Il bacio fraterno tra il successore di Pietro e il vescovo della Chiesa di sant’Andrea — il santo che condusse suo fratello Pietro da Cristo e che, per questo, è chiamato “proto clito” — si presenta a noi come l’icona dell’umile disponibilità alla riconciliazione dopo secoli di distanza e di ostilità. Unito a questo magnifico gesto era il rinnovato impegno, da parte dei due capi di Chiesa, di ripristinare l’unità perduta e di valutare, nella verità e nell’amore, le differenze che permanevano. Il Patriarca Atenagora riassunse bene l’atmosfera spirituale di quel momento con parole molto belle: «Da secoli, il mondo cristiano vive nella notte della divisione. I suoi occhi sono stanchi di guardare nelle tenebre». Ed espresse il desiderio che l’incontro di Gerusalemme potesse essere «l’aurora di un giorno radioso e benedetto». L’incontro di Gerusalemme segnò una svolta molto promettente nelle relazioni tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica. Dobbiamo il fatto che ad aprire questo nuovo capitolo furono Papa Paolo VIe il Patriarca Atenagora, ai carismi particolari che la Provvidenza divina donò a entrambi. Non è un’esagerazione rendere loro omaggio come uomini del dialogo e profeti dell’amore ecumenico. Il Patriarca Atenagora promosse fortemente, in prima linea, il dialogo intraortodosso e, nella convinzione che dovesse essere rivitalizzata la sinodalità trascurata all’interno della famiglia delle Chiese ortodosse, intraprese svariate iniziative panortodosse, tra le quali anche il progetto della convocazione di un “grande Concilio ecumenico”. Già nei diciotto anni durante i quali fu arcivescovo dell’America del nord e del sud, egli curò contatti amichevoli con molti cattolici e, come Patriarca ecumenico, rivolse un’attenzione particolare al dialogo ecumenico con la Chiesa cattolica. Questa apertura ecumenica derivava soprattutto dalla sua fondamentale convinzione che la Chiesa in Oriente e la Chiesa in Occidente si erano allontanate non tanto a causa di discussioni dottrinali, quanto per aver preso strade diverse nella loro vita. Egli poté così dichiarare senza mezzi termini: «Ci separano soltanto i 900 anni di divisione». E poiché considerava le divisioni tra le Chiese come eventi che appartenevano ad altre epoche e rappresentavano dunque un anacronismo, era convinto che esse dovessero essere «superate in maniera definitiva». Un atteggiamento dialogico altrettanto spiccato e un’apertura ecumenica ugualmente marcata caratterizzarono anche Papa Paolo VI. Nella sua prima enciclica Ecclesiam suam del 1964, egli dichiarò il dialogo parte integrante del programma della Chiesa cattolica e attribuì un’imp ortanza particolare al dialogo «con i fratelli cristiani, tuttora da noi separati»: «Nulla tanto ci può essere più ambito che di abbracciarli in una perfetta unione di fede e di carità» (n. 113). Già all’inizio della seconda sessione del concilio Vaticano II, Papa Paolo VI, nel suo fondamentale discorso di apertura, sottolineava che il riavvicinamento ecumenico tra le Chiese divise era l’obiettivo centrale, ovvero il dramma spirituale per il quale era stato convocato il concilio. L’incontro fraterno a Gerusalemme tra i due profeti del dialogo e dell’amore fu dunque una conseguenza logica del loro atteggiamento di apertura ecumenica. Con il loro comune pellegrinaggio alle radici del cristianesimo, essi contribuirono a un essenziale miglioramento dell’atmosfera tra la Chiesa in Oriente e la Chiesa in Occidente, e dettero avvio a quel “dialogo dell’a m o re ” che dichiararono essere il programma futuro. Dopo l’incontro di Gerusalemme, il dialogo fu portato avanti per dodici anni tramite un intenso scambio di discorsi e di documenti scritti, tra il Fanar a Costantinopoli e il Vaticano a Roma; questo scambio, che fu pubblicato in seguito con il bel titolo di Tomos Agapis ( L i b ro dell’Agape), testimonia la ferma volontà dei due capi di Chiesa di ristabilire la comunione ecclesiale ed eucaristica tra Oriente e Occidente. Un ulteriore gesto di estrema importanza simbolica a rafforzamento di questo dialogo dell’amore fu compiuto l’anno stesso in cui si tenne l’incontro di Gerusalemme, quando Roma, dopo oltre cinquecento anni, restituì al patriarcato ecumenico la testa dell’apostolo Andrea, che è particolarmente venerato nella Chiesa d’Oriente ed è il patrono della Chiesa di Costantinopoli. L’incontro memorabile di Gerusalemme, in cui la volontà di ripristinare l’amore fu attestata dalle rispettive dichiarazioni dei due capi di Chiesa e suggellata dal loro bacio fraterno, preparò la strada all’evento storico del 7 dicembre 1965, quando, nella cattedrale di San Giorgio del Fanar a Costantinopoli e nella basilica di San Pietro a Roma, i più alti rappresentanti della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa tolsero «dalla memoria e dal mezzo della Chiesa», come si legge nella loro Dichiarazione comune, le reciproche sentenze di scomunica dell’anno 1054, per evitare che esse fossero «un ostacolo al riavvicinamento nella carità». In questo storico atto, meritano di essere messe in evidenza soprattutto tre dimensioni essenziali. Dopo il raffreddamento dell’amore tra la Chiesa di Costantinopoli e la Chiesa di Roma e dopo il conseguente allontanamento reciproco durato per secoli a seguito delle scomuniche del 1054, è stato innanzitutto il ristabilimento dell’amore che i due capi di Chiesa si sono sforzati di conseguire. Nel fare ciò, non si trattava semplicemente di ripristinare un amore esclusivamente interpersonale e umanistico, ma si trattava piuttosto di realizzare un amore ecclesiale, ovvero una comunione d’amore tra le Chiese. È facile capire allora perché l’atto del 1965 abbia avuto implicazioni fondamentali a livello di diritto canonico. Vlassios Phidas ha osservato giustamente che le scomuniche del 1054 erano atti canonici vincolanti e che, di conseguenza, anche il loro annullamento aveva lo stesso carattere, tanto più che il Patriarca Atenagora e Papa Paolo VIagirono in nome delle loro Chiese, compiendo dunque atti giuridici vincolanti. In secondo luogo, se è vero che il ristabilimento dell’amore ecclesiale non significa ancora comunione eucaristica, è anche vero che esso ne porta su di sé l’intera dinamica. In un convegno ecumenico svoltosi nel 1974, Joseph Ratzinger sottolineò in maniera pertinente che il bacio fraterno e l’agape sono in sé termine e rito dell’unità eucaristica e invitano urgentemente al ripristino dell’unità nella comunione eucaristica: «Là dove l’agape è una realtà ecclesiale, essa deve diventare un’agape eucaristica». La necessità di ristabilire la comunione eucaristica come obiettivo del cammino iniziato a Gerusalemme era già evidente, all’epoca, al Patriarca Atenagora e a Papa Paolo VI, come manifestò in maniera particolarmente chiara il Patriarca ecumenico nel 1968: «È giunta l’ora del coraggio cristiano. Ci amiamo gli uni gli altri; professiamo la stessa fede comune; incamminiamoci insieme verso la gloria del sacro Altare comune» (Tomos Agapis, n. 2771). La stessa convinzione fu espressa da Papa Paolo VI, con la sua particolare sensibilità ai gesti altamente simbolici, quando a Gerusalemme fece dono al Patriarca ecumenico di un calice eucaristico. In terzo luogo, il presupposto indispensabile per compiere gli atti sopra menzionati è la purificazione comune della memoria storica. Perché siano possibili un nuovo presente e un nuovo futuro, il passato deve essere cambiato. Ma il pesante passato può essere cambiato solo se si dimentica. E dimenticare non significherà chiudere gli occhi davanti alla storia soltanto se il suo più profondo contenuto consiste nel perdono, attraverso il quale sono state annullate le reciproche scomuniche del 1054, di modo che esse non fanno più parte della posizione ufficiale delle Chiese. Riguardo all’atto del 1965, possiamo dunque dire, riprendendo le parole di Joseph Ratzinger, che il veleno delle scomuniche è stato tolto dall’organismo della Chiesa e il “simbolo della divisione” è stato sostituito dal “simbolo della carità”: «La relazione di un “amore raffreddato”, di “opposizioni della diffidenza e degli antagonismi” è stata sostituita dalla relazione di amore e di fratellanza, il cui simbolo è il bacio fraterno». Gli atti del 1964 e del 1965 sono diventati il punto di partenza del dialogo ecumenico dell’amore tra ortodossi e cattolici; con essi, il primo passo del dialogo dell’amore era già compiuto. Ma il dialogo dell’a m o re richiedeva il dialogo della verità, ovvero l’approfondita riflessione teologica sulle differenze teologiche alla base della divisione tra le Chiese, per poter pervenire a una comunione ecclesiale ed eucaristica. L’inizio di tale dialogo fu annunciato con una dichiarazione comune, nel 1979, dal Patriarca ecumenico Dimitrios I e dal Papa Giovanni Paolo II, in occasione della prima visita di quest’ultimo al Fanar per la festa di Sant’Andrea. Da allora, la Commissione internazionale mista per il dialogo teologico porta avanti questo indispensabile lavoro. Durante il primo decennio, dal 1980 al 1990, l’attenzione è stata rivolta principalmente al consolidamento del fondamento di fede comune; in questo periodo è stato possibile individuare ampie convergenze su temi relativi al mistero della Chiesa e in particolare all’Eucaristia, al rapporto tra fede, sacramento e Chiesa, e al sacramento dell’ordinazione. Nel secondo decennio, dal 1990 al 2000, le conversazioni ecumeniche sono diventate sempre più difficili, poiché l’infiammarsi di vecchie polemiche in merito all’uniatismo e al proselitismo hanno condotto a un drammatico deterioramento dell’atmosfera del dialogo e infine, nel 2000, all’i n t e r ru z i o n e dei lavori della Commissione. Da quando, a poco tempo di distanza dall’inizio del pontificato di Benedetto XVI, è stato possibile riprendere le conversazioni, la Commissione si concentra su quel tema dolente che fino a ora è stato di ostacolo alla comunione ecclesiale, ovvero la questione del primato, e tenta di trattarlo nel più ampio contesto del rapporto teologico tra sinodalità e primato nella Chiesa. Da un lato, il dialogo della verità è riuscito a conseguire risultati incoraggianti, come per esempio il documento di Ravenna del 2007, nel quale entrambi i partners di dialogo hanno dichiarato insieme per la prima volta che la Chiesa ha bisogno di unprotos non solo a livello locale e regionale, ma anche a livello universale. Dall’altro lato, però, il dialogo è continuamente offuscato da controversie interortodosse, tra le quali, per esempio, la non accettazione del sopramenzionato documento di Ravenna da parte del patriarcato ortodosso russo, che ha confermato recentemente la sua opposizione al riguardo con una dichiarazione rilasciata nel dicembre 2013 sulla questione del primato nella Chiesa universale. La Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica sono tuttavia convinte che non esista un’alternativa al dialogo teologico della verità e che sia loro compito, nel rispetto della volontà del Signore, superare gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento dell’unità ecclesiale. Affinché possa essere portato avanti, il dialogo della verità dovrà però essere sempre iscritto all’interno del dialogo dell’amore. Difatti, il dialogo dell’amore e il dialogo della verità non possono essere intesi come due gradini, uno successivo all’altro. Il dialogo della verità deve essere sempre accompagnato dal dialogo dell’amore, come ci viene mostrato dalla bella tradizione dello scambio di visite tra la Chiesa di Costantinopoli e la Chiesa di Roma in occasione delle rispettive feste patronali o in altre circostanze particolarmente imp ortanti. In questa solida tradizione del dialogo dell’amore s’iscrive anche il pellegrinaggio di Papa Francesco in Terra Santa, il cui momento centrale sarà l’incontro con il Patriarca ecumenico Bartolomeo I, in ricordo del primo incontro avvenuto tra i predecessori dei due capi di Chiesa cinquanta anni fa. Così come allora Papa Paolo VIe il Patriarca Atenagora si erano recati a Gerusalemme come pellegrini e da lì erano ripartiti come fratelli, è auspicabile che, in occasione del prossimo incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo I, sia possibile celebrare e alimentare la fraternità che si è nel frattempo approfondita e fornire un rinnovato impulso agli sforzi ecumenici, che vanno intesi, secondo le belle parole del metropolita ortodosso Emmanuel Adamakis, come «un viaggio ecclesiale nella Terra Santa dell’unità». In particolare, ci auguriamo che possa essere riacceso l’appassionato desiderio di ristabilire la comunione ecclesiale e di partecipare insieme al comune altare eucaristico — desiderio che ardeva nell’animo del Patriarca Atenagora e di Papa Paolo VI, il quale lo ribadiva con parole toccanti nella sua ultima lettera al Patriarca ecumenico, scritta il 4 giugno 1972, poco prima che questi morisse: «Anche noi desideriamo percorrere con Vostra Santità la via di Emmaus, meditando sulle sacre Scritture, al fine di incontrare il Signore nella frazione del pane». Questo obiettivo della via di Emmaus non è stato, fino a oggi, raggiunto e deve rimanere pertanto al centro della preghiera incessante di ortodossi e cattolici. A tale intenzione sarà dedicata a Gerusalemme soprattutto la preghiera ecumenica presso la chiesa del Santo Sepolcro. Come Papa Paolo VI incontrò nel 1964 anche il Patriarca greco-ortodosso Benediktos e il Patriarca della Chiesa apostolica armena Derderian, pregando con loro per l’unità della Chiesa, così, dopo l’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo, anche questa volta sarà celebrato un servizio ecumenico, per professare pubblicamente che l’unità della Chiesa è innanzitutto un dono fatto da Dio alla sua Chiesa e, solo come conseguenza di questo, un compito a essa affidato. Giustamente, dunque, la preghiera ecumenica avrà un posto speciale durante il pellegrinaggio nella “Terra Santa” dell’unità.

© Osservatore Romano - 21 maggio 2014