Sostenere scuole e cliniche per aiutare i cristiani

Paolo Pegoraro
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Un ciclo di conferenze che illustrino la peculiarità delle singole Chiese del Medioriente. È una delle iniziative promosse dalla Chiesa greco-cattolica melkita presso l’antica basilica di Santa Maria in Cosmedin, dov’è conservato uno dei simboli più famosi di Roma: la Bocca della Verità. I primi due incontri sono stati dedicati alla Chiesa etiopica e a quella siro-antiochena. L’iniziativa è stata ispirata dal recente Sinodo sul Medio Oriente, come ci spiega padre Mtanious Hadad, Apocrisario di Sua Beatitudine Gregorios III Laham: «Quando in Europa si dice “Chiesa cattolica” s’intende solo la Chiesa latina e noi restiamo esclusi. D’altra parte anche noi Chiese mediorientali, pur essendo tutte presenti in Roma, restiamo talora a distanza le une dalle altre. È un bene per i cattolici italiani comprendere che ci sono altre Chiese cattoliche, così come è bene per le Chiese mediorientali conoscersi meglio tra loro».
Il ciclo di conferenze, composto da nove incontri a cadenza mensile, si concluderà con una mostra sulle vesti liturgiche delle diverse tradizioni e con un concerto di cori che presenteranno le comunità attraverso il canto. L’iniziativa rientra nelle attività del neonato Centro Culturale Bocca della Verità (www.centroboccadellaverita.com), voluto dall’attuale rettore di Santa Maria in Cosmedin per rafforzare il tessuto della comunità melkita. E non solo.
 
Padre Mtanious, qual è la storia della vostra comunità in Italia?
«La nostra presenza nella capitale risale al Medioevo e si è rafforzata nei secoli seguenti, quando i cristiani libanesi passavano dall’Italia prima di ripartire alla volta dell’America e del Brasile. Una presenza minima rispetto a quella di altri cristiani orientali, come i maroniti, poiché moltissime famiglie – tra il Medioevo e il 1967 – abbandonarono il loro rito e si latinizzarono, sia a causa della loro lunga permanenza, sia per opera del proselitismo diretto e indiretto. Dopo il Concilio Vaticano II papa Paolo VI volle affidare una chiesa della capitale ai melkiti, pertanto concesse il titolo di cardinale al nostro Patriarca di allora, Maximos IV Sayegh, e ci affidò l’amministrazione di Santa Maria in Cosmedin. Dal 1967 a oggi sono passati molti rettori che hanno rintracciato le famiglie rimaste melkite e le quali risiedono anche lontano da qui. Insieme stiamo riprendendo il cammino spirituale e desideriamo fare di Santa Maria in Cosmedin un punto di riferimento per tutti loro. Io sono qui da quattro anni e ho avvertito la necessità di attivare dei servizi che possano venire incontro ai loro bisogni».

Cosa offre il vostro Centro Culturale?
«Per prima cosa corsi di lingua araba per gli europei che hanno contatti con il mondo orientale o attività commerciali, o vogliono recarvisi in pellegrinaggio. Insegniamo poi l’italiano agli arabi appena arrivati per incoraggiare l’integrazione. Abbiamo attivato un corso di iconografia e un corso di canto bizantino, per aiutare la partecipazione alla nostra messa domenicale. Il canto è un aiuto anche per coloro che sono giunti in Italia molti anni fa e riattivano la memoria attraverso le melodie con le quali hanno pregato 20 anni fa».

Ogni giovedì, inoltre, celebrate la Messa in arabo…
«Sì, una volta la settimana celebriamo la Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, ma tutta in lingua araba. Perché il giorno di Pentecoste c’era anche l’arabo al battesimo del cristianesimo. Oggi in Europa c’è sempre un doppio pregiudizio, secondo il quale chiunque parla arabo è musulmano, e ogni musulmano è un terrorista. E molti infatti ci chiedono se siamo musulmani convertiti, dimenticando che eravamo presenti in quelle regioni sette secoli prima dell’islam. Noi siamo fieri di essere arabi e di dire che è stato proprio il cristianesimo a salvaguardare la lingua araba durante i primi sette secoli. Non siamo convertiti; al contrario, in tredici secoli di storia tanti cristiani si sono dovuti convertire all’islam, perché non potevano pagare il tributo o per non essere martirizzati. Oggi tuttavia viviamo in pace e in nazioni come la Siria siamo rispettati, condividendo diritti e doveri di ogni cittadino».

Quali sono state le sue impressioni in merito al Sinodo sul Medio Oriente?
«È stato un bene che tutti i Patriarchi si siano potuti ritrovare con il Papa parlandosi in maniera chiara dei problemi comuni: ora attendiamo i frutti per vedere se si è andati oltre la semplice diplomazia. Intanto in Siria il nostro Patriarca ha organizzato ogni settimana due incontri sul Sinodo, uno per i cristiani e uno per i musulmani, per rassicurarli che non si trattava di una “nuova crociata” contro l’Islam ma di un momento per riflettere sulla comune convivenza. Per questo, prima di partire per Roma, Sua Beatitudine ha inviato una lettera ai presidenti e ai re di tutto il Medioriente per spiegare le finalità del Sinodo, e successivamente ha inviato una seconda lettera dove ha raccolto le conclusioni e ha ricordato il dovere dei musulmani di difendere i cristiani. Senza cristiani, infatti, il Medioriente sarà un oceano di musulmani opposto a un altro oceano di europei cristiani: e allora avremo davvero la guerra religiosa. Per questo non possiamo avere un Medioriente senza cristiani, né un’Europa senza musulmani. Inoltre il diritto dei cristiani di vivere in quelle regioni in quanto comunità più antica implica il dovere di essere protetti, perché siamo parte costituente dei Paesi dove siamo. Siamo arabi prima di loro e dobbiamo aprire gli occhi a chi per ignoranza ci considera figli delle crociate. Il Ministero dei Beni culturali in Siria, inoltre, ha accolto l’invito del nostro Patriarca e sta preparando una giornata di congresso internazionale con 2500 ospiti dove l’unico relatore sarà Sua Beatitudine, che spiegherà il Sinodo, mentre il pomeriggio vi saranno lavori di gruppo».

E a livello di dialogo interreligioso…?
«Convegni e altre iniziative sono benvenute, ma il vero dialogo interreligioso si gioca nella vita quotidiana dei cristiani arabi in questi Paesi. Per questo bisogna aiutarli là dove sono, in Medioriente, pur senza mettere in pericolo le loro vite, ma neppure illudendosi che l’emigrazione risolva qualcosa. Oggi a Gerusalemme ci sono tredici riti cristiani eppure, tutti insieme, raggiungono appena il 2% della popolazione: se l’Europa non fa qualcosa per aiutare la vita delle comunità locali, i pellegrini che giungeranno sui luoghi santi troveranno le chiese ridotte a musei. Oggi preghiamo tutti per i martiri dell’Iraq, ma domani? Bisogna promuovere un’azione continua perché i cittadini cristiani possano rimanere là dove vivono. Per esempio sostenendo progetti di scuole e cliniche: i cristiani sono sempre all’avanguardia nelle opere di carità e se l’Europa appoggia tali opere offre la possibilità di un lavoro ai cristiani che abitano lì».

© http://www.labussolaquotidiana.it/ita/home.htm - 20 dicembre 2010