La nostra è la fede degli apostoli, tramandata da san Tommaso

benedetto-xvi-george-alencherryL’origine apostolica. La fedeltà alle proprie tradizioni.

I rapporti con gli hindu e una fioritura di vita che non conosce confini. Le relazioni con Roma. Intervista con George Alencherry, arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese, in occasione della sua visita a papa Benedetto XVI

Intervista con George Alencherry, arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese di Roberto Rotondo e Gianni Valente

Roma è lontana dal Malabar. Ma se si vuole percepire cosa sia davvero la prossimità che connota ed esprime la Communio Ecclesiarum, basta guardare al filo di gratuita e reciproca riconoscenza che unisce la Chiesa di Roma e la Chiesa siro-malabarese. Due realtà che per quasi dieci secoli non hanno condiviso alcun tipo di legame giuridico-istituzionale. George Alencherry, eletto nel maggio scorso arcivescovo maggiore di quella Chiesa indiana di rito orientale fiorita dalla predicazione di san Tommaso apostolo, nel mese di ottobre è venuto a trovare il Successore di Pietro nella sua sede apostolica. In occasione della sua trasferta romana, il capo della comunità cattolica di rito orientale più numerosa e rilevante dopo i greco-cattolici ucraini ha voluto incontrare anche 30Giorni.

L’intervista è stata raccolta presso la Domus Romana Sacerdotalis di via della Traspontina.


Beatitudine, ci racconta del suo incontro col Santo Padre?

GEORGE ALENCHERRY:Io sono stato eletto arcivescovo maggiore dal Sinodo della Chiesa siro-malabarese a maggio, e poi il Papa ha confermato la mia elezione. Questa procedura è stata applicata per la prima volta: infatti, i due arcivescovi maggiori che mi hanno preceduto erano stati scelti direttamente dalla Santa Sede. L’elezione è avvenuta il 24 maggio, e il 29 maggio mi sono installato come arcivescovo maggiore e arcivescovo della diocesi di Ernakulam – Angamaly. Quella di ottobre è stata la mia prima visita da arcivescovo maggiore al Papa, insieme col Sinodo permanente dei nostri vescovi. È stata l’occasione per rinnovare come arcivescovo maggiore la mia dichiarazione di lealtà e obbedienza al successore di Pietro. Durante il viaggio ho visitato anche altri dicasteri della Santa Sede, in particolare la Congregazione per le Chiese orientali.

Quali argomenti avete trattato nei vostri incontri in Vaticano?

Abbiamo parlato parecchio dei problemi di giurisdizione che creano ostacoli alla nostra opera pastorale. I fedeli della Chiesa siro-malabarese sono circa quattro milioni, di cui 3 milioni e 400mila vivono nelle ventotto diocesi in India. Di queste diocesi, diciotto si trovano nel territorio proprio (Kerala, parte del Tamil Nadu e Karnataka) della Chiesa siro-malabarese. Noi abbiamo una giurisdizione territoriale solo in queste diciotto diocesi. E ci piacerebbe avere una giurisdizione territoriale che copra tutto il territorio dell’India: è questo uno dei nostri appelli al Santo Padre, e per noi è una richiesta importante. Crediamo che sia un nostro diritto. Prima dell’arrivo dei missionari occidentali – i portoghesi sono arrivati nel XVI secolo – la giurisdizione di noi “Cristiani di san Tommaso” era estesa a tutta l’India. Poi i missionari occidentali, a causa dell’influenza dei sovrani europei, presero la giurisdizione dell’India, restringendo la nostra alle aree dove eravamo maggiormente concentrati.

La vostra richiesta può sembrare una rivendicazione di diritti passati ormai sepolti dalla storia…

No, è una questione che riguarda il presente, in termini molto concreti. I nostri fedeli crescono di numero e si diffondono in altre regioni. Ma lì succede che la nostra gente non trova adeguata cura pastorale in continuità con la propria tradizione, e soffre per questo. I nostri fedeli sono abituati alla nostra liturgia, ai nostri costumi, alle nostre modalità di preghiera e di partecipazione dei laici all’amministrazione delle parrocchie. Il ruolo dei laici nella vita delle parrocchie e nella catechesi è una peculiarità della Chiesa siro-malabarese. In molte grandi città ci sono grandi concentrazioni di fedeli siro-malabaresi: settantamila a Delhi, cinquantamila a Chennai e Bangalore, circa ventimila a Hyderabad. Vorremmo poter stabilire delle diocesi almeno in questi grandi centri urbani.

E cosa vi è stato risposto?

La Santa Sede ci ha detto che in via di principio abbiamo diritto alla giurisdizione. Ma, visto che nelle altre regioni si è installata la Chiesa latina, è necessario stabilire un qualche tipo di intesa concordata con i latini. Il Santo Padre comprende i nostri bisogni e ci ha spiegato che sarà necessario procedere un passo alla volta. Ci ha ricordato le parole del Concilio Vaticano II, per cui ciascuna Chiesa sui iuris ha diritto a poter vivere in autonomia. C’è un’anomalia storica che va corretta. Noi siamo pazienti, ma non è giusto che si vada avanti così.

Quali sono le obiezioni che vengono poste alla vostra richiesta?

Già adesso la Chiesa siro-malabarese, quella siro-malankarese e quella latina hanno diocesi che si sovrappongono nel nostro territorio storico. Però alcuni vescovi pensano che ci potrebbero essere delle difficoltà se noi estendessimo la nostra giurisdizione a territori che cadono nelle loro diocesi. Tenete conto che in alcune diocesi latine attualmente i siro-malabaresi rappresentano una gran parte dei fedeli accuditi dai sacerdoti latini. Se estendessimo la giurisdizione, in alcune di quelle diocesi latine potrebbero rimanere pochissimi fedeli di rito latino. Un altro timore riguarda i preti siro-malabaresi che hanno imparato il rito latino e lavorano nelle diocesi latine. Ci sono più di trenta vescovi di origine siro-malabarese che lavorano come vescovi latini nelle diocesi del nord.

E fuori dall’India, come vanno le cose?

C’è un gran numero di fedeli siro-malabaresi fuori dall’India. Negli Stati Uniti sono circa centomila, e per loro è stata istituita una diocesi che ha il suo centro a Chicago. La gran parte dei fedeli all’estero si concentrano nel Golfo Persico. In Arabia Saudita sono più di ottantamila, quasi tutti lavoratori che si sono trasferiti lì in maniera permanente. Il Papa ha nominato due vicari apostolici e un nunzio, ma i sacerdoti che sono stati incaricati di prendersi cura di quei fedeli, pur essendo di origine siro-malabarese, hanno aderito alle congregazioni latine e sono latini di formazione. L’assenza di sacerdoti del nostro rito ha creato qualche tensione in quei Paesi. È un altro problema che abbiamo fatto presente alla Santa Sede; speriamo che ci diano ascolto.

Come procede la collaborazione tra le diverse Chiese cattoliche in India?

Le tre Chiese, latina, siro-malabarese e siro-malankarese, sono parte dell’unica Chiesa universale, e c’è una Conferenza episcopale dei vescovi delle tre Chiese. In quella Conferenza lavoriamo insieme senza alcun problema. La Chiesa cattolica è comunione di diverse Chiese particolari: ci sono ventidue Chiese orientali, che con quella latina compongono la Chiesa universale. Solo a partire da questa teologia è possibile l’ecumenismo: se i greco-ortodossi percepissero l’esistenza di questa comunione, si unirebbero ai cattolici. Ecumenismo non è portare la Chiesa ortodossa sotto l’amministrazione di quella latina. Noi, da dentro, chiediamo un ecumenismo reale. Gli ortodossi lo chiedono da fuori. Ma alcuni tra i latini non lo comprendono.

E i rapporti con gli hindu?

In generale l’induismo è una religione che promuove pace e armonia. La gran parte delle persone ci guarda con simpatia, e lavoriamo insieme. Ma come sapete, nel passato recente ci sono stati gruppi di fondamentalisti che hanno creato problemi. In ogni Paese, per un motivo o per l’altro, esistono i fondamentalisti. Così come esistono gli estremisti politici, che chiamiamo terroristi. In India esistono gruppi estremisti all’interno dell’induismo: chi crede nell’autentico induismo non li ama, ma questi gruppi creano problemi soprattutto ai cristiani. Temono che i cristiani, per mezzo delle conversioni, prendano il controllo del Paese. Ma è una paura senza fondamento e anzi i cristiani non reagiscono con la violenza ai loro attacchi. Il governo lo sa e ci sta aiutando.

La Chiesa siro-malabarese è rimasta nella fede degli apostoli vivendo nel mezzo di una cultura radicata in altri presupposti religiosi. Questa è una splendida testimonianza del fatto che la Chiesa è di Gesù Cristo (Ecclesiam Suam, scrisse Paolo VI). Cosa può suggerire alla cristianità intera la vicenda dei cristiani siro-malabaresi?

L’eredità che ci portiamo dietro è il risultato di venti secoli di testimonianza della fede cattolica, a cui siamo sempre rimasti fedeli anche quando c’erano serie incomprensioni da parte dei missionari stranieri. La nostra Chiesa ha uno stile unico di catechesi: nelle famiglie, nelle parrocchie e nelle scuole, a tutti questi tre livelli insegniamo ai bambini a custodire la fede. Qui a Roma ci sono circa seimila fedeli siro-malabaresi: il 16 ottobre abbiamo celebrato una bella liturgia nella Basilica del Laterano. La Basilica era piena.

La Chiesa siro-malabarese ha confermato la comunione con Roma dopo secoli di assenza di contatti. È il segno che la comunione della Chiesa non è in primo luogo il risultato di rapporti giuridici…

La nostra è la fede degli apostoli, tramandata da san Tommaso. San Tommaso non avrebbe potuto iniziare una nuova Chiesa per forza propria. Anche in India lui fece solo quello che Gesù gli aveva detto di fare. Per lo stesso motivo, Tommaso e tutti quelli che da lui hanno ricevuto l’annuncio evangelico sono in comunione con Pietro, e questo è garanzia della nostra fede. La lealtà al Papa arriva dalla nostra esperienza della fede: preghiamo per il Papa nella celebrazione eucaristica, consideriamo nella liturgia i santi di tutte le Chiese particolari insieme coi nostri. Dottrinalmente, custodiamo ciò che abbiamo ricevuto dal Credo di Nicea. L’eucaristia e gli altri sacramenti, per dono dello Spirito Santo, ci uniscono nella Chiesa una, santa e apostolica.

Ci racconta la vostra devozione per san Tommaso?

Dopo le feste di Nostro Signore, dal Natale alla Pasqua, e le feste della Beata Vergine – Immacolata Concezione, Natività e Assunzione –, la festa più solenne nella Chiesa siro-malabarese è la “dukhrana”, o commemorazione di san Tommaso. La celebriamo in tutto il mondo; anche in Arabia Saudita, dove non si possono tenere celebrazioni ufficiali, più di trecento fedeli si sono riuniti in un luogo privato e mi hanno telefonato, chiedendo una benedizione. Secondo la tradizione, Tommaso fondò sette comunità in India. Quei luoghi sono diventati altrettante mete di pellegrinaggio. E la prima domenica dopo Pasqua si celebra la festa di san Tommaso che tocca il costato di Gesù. È una grande festa, a cui partecipano anche molti hindu.

Il cardinal Levada, all’ultimo Sinodo delle Chiese orientali, ha annunciato che avrebbe consultato i patriarchi orientali su una possibile riforma dell’esercizio del ministero petrino. Cosa suggerisce, in particolare riguardo ai rapporti con le Chiese orientali?

La Chiesa cattolica, attraverso il Consiglio per l’Unità dei cristiani, ha già iniziato un dialogo sul primato. Penso che si debba proseguire in quel dialogo e cercare un accordo comune con le Chiese d’Oriente, come c’era nei primi quattro secoli della cristianità. A quel tempo c’era una comprensione comune del primato. Ora la Chiesa ortodossa obietta che è impossibile risalire alla teologia precedente al Concilio di Calcedonia perché non possediamo nessun documento di quell’epoca. Ma credo che anche a partire dai documenti e pronunciamenti successivi al tempo di Calcedonia sia possibile un dialogo e un accordo sul ministero petrino. Perché esiste l’espressione primus inter pares. Noi abbiamo tutti bisogno di un ministero petrino che sia riferimento di unità per tutte le Chiese. Io ho la speranza che si trovi un punto a metà strada dove la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse possano incontrarsi nella piena comunione della Chiesa di Cristo.

Per secoli la vostra Chiesa ha dovuto fare i conti con i processi di “latinizzazione” messi in atto nei vostri confronti. C’era chi vi credeva eretici o scismatici perché avevate le vostre preghiere, le vostre liturgie e non parlavate latino. Oggi vede ancora circolare residui di quella mentalità?

Il modo di pensare è cambiato molto, anche nella Chiesa latina. Tra i teologi, tra la gran parte dei vescovi, e nella Sede apostolica. Padre Placid Podipara, cmi, un teologo e storico molto rinomato della nostra Chiesa, ha detto che la Chiesa siro-malabarese è cristiana per fede, hindu per cultura e orientale nel culto. Sfortunatamente i missionari che arrivarono nel XVI secolo non lo compresero. Non avevano cattive intenzioni, era l’attitudine del tempo. Ma ora quello che loro hanno pensato che fosse sbagliato può essere restaurato. Questo è ciò che dice il Concilio Vaticano II. Molto è cambiato, ma dove questo cambiamento non c’è stato, ci sono dei problemi. E questo capita con la mentalità di alcuni vescovi latini. L’ho detto anche al Papa; ho detto: «Santità, ci sono tantissimi vescovi latini che comprendono correttamente l’ecclesiologia di comunione, ma ce ne sono altri…».

La liturgia ha avuto un ruolo centrale per la continuità storica della vostra Chiesa. Come vede l’importanza riconosciuta alla liturgia dal magistero del Papa attuale?

Il magistero del Papa attuale sta realmente salvando la Chiesa del nostro tempo. Ci sono tante aberrazioni che stavano penetrando nella Chiesa, a volte nel nome del Concilio Vaticano II. C’è qualcuno che ha interpretato male quel Concilio, fermandosi alle cose accidentali e perdendo di vista l’essenziale. Il Papa vuole seguire ciò che il Vaticano II realmente ha voluto dire. E quando lui, piano piano, riuscirà a far passare queste cose, la Chiesa sarà davvero unita. La dissipazione e la mondanizzazione della Chiesa sono davvero estese, specialmente in Europa, e per la ricomposizione occorrerà più tempo. Ma questo è l’intento del Papa, e la Chiesa siro-malabarese è con lui.

Eppure ci sono state anche nella Chiesa siro-malabarese controversie accese tra chi sostiene il recupero integrale del patrimonio liturgico tradizionale e chi giudica questo una forma di estetismo tradizionalista. Tra “caldeizzanti” e “latinizzanti”…

Vi dirò: se una cosa è caldea, o europea, o di qualsiasi altro posto, quello che è valido è valido. Ma alcuni, in conseguenza della latinizzazione, si sono convinti che quello che appartiene alla cultura occidentale è buono e quello che viene da Oriente non è buono. È un’impressione creata dalla latinizzazione, a cui siamo stati sottoposti per tre secoli. Anche se la Chiesa universale con il Concilio Vaticano II ci ha restituito la libertà di recuperare gli elementi validi del nostro patrimonio, una buona parte della Chiesa li ha dimenticati e non sente l’esigenza di questo recupero. Dicono: continuiamo ad andare avanti con quello che abbiamo ora, e se serve altro, prendiamolo dalla Chiesa latina. Questa è la loro attitudine. Altri rispondono che per continuare a essere ciò che siamo, dobbiamo prima di tutto recuperare quello che ci è stato tolto e abbiamo perduto.

Io, nel mio ufficio, proverò a creare più unità e anche una certa uniformità nelle celebrazioni liturgiche. Non una uniformità integrale, ma una unità sull’essenziale. Da realizzare mano a mano. Gradualmente. Ad esempio, prima nella Chiesa latina c’era chi diceva che noi celebriamo guardando al muro. Ma guardare a Est non è avere la faccia al muro. È guardare verso dove viene il Signore. Nella teologia della nostra Chiesa, il popolo e il celebrante offrono insieme il sacrificio a Dio Padre, rivolti a Oriente.


L’India sta diventando una specie di superpotenza geo-economica. Ci sono nuovi problemi. Questi processi come toccano il vostro lavoro pastorale?

Il mondo che cambia, cambia anche noi. I nostri fedeli emigrano, per studiare o cercare lavoro. Solo un terzo di essi vivono nelle diocesi originarie. Circa due terzi sono fuori, nelle grandi città. In America e in Europa ci sono dottori, imprenditori, commercianti siro-malabaresi che stanno salendo la scala sociale. Se a noi viene riconosciuta la giurisdizione universale sui nostri fedeli, noi possiamo davvero favorire questa energia in modo che la sua forza sia al servizio della Chiesa universale. Altrimenti quello che perderemo noi lo perderà la Chiesa universale. E se i nostri fedeli troveranno difficoltà a rimanere in contatto con il proprio patrimonio spirituale, cercheranno il senso spirituale nei gruppi pentecostali o in realtà del genere. E questo sta già accadendo. Noi stiamo perdendo i nostri fedeli. Loro arrivano dall’India in Occidente, trovano qualcuno che dice loro: perché devi andare nelle chiese dei latini? Vieni con noi, preghiamo insieme. Ne abbiamo persi tanti. Noi siamo angosciati per questo e abbiamo espresso le nostre angosce anche ai dicasteri vaticani. Tutti sembrano comprendere quello che diciamo, ma poi non si prendono decisioni. Si devono consultare tante persone, e il tempo passa. E le cose peggiorano. Molti sembrano non capire che se fiorisce e prospera la Chiesa siro-malabarese, fiorisce la Chiesa universale. Perché ogni Chiesa particolare è per la Chiesa universale. E anche la Chiesa latina è una Chiesa particolare. Mentre nelle teste di qualcuno, universale coincide con latino. Questa ovviamente non è la dottrina ufficiale. Non è il pensiero di nessun teologo serio. Ma continua a essere mentalità diffusa in molti, e crea ritardi.

Nei giorni scorsi, presso la Pontificia Università Gregoriana, si è tenuto un importante Congresso internazionale sulla cosiddetta Anafora di Addai e Mari. Perché questa anafora ha un’importanza particolare dal punto di vista ecumenico e liturgico?

Quella di Addai e Mari è l’anafora più antica nella Chiesa universale. In essa noi percepiamo la più semplice teologia dei Vangeli, la più germinale comprensione del mistero di Cristo, senza le formulazioni dottrinali venute dopo. Come il Vangelo di san Marco è il Vangelo più semplice, quella di Addai e Mari è la liturgia più semplice. Così, quando la celebriamo, sperimentiamo intensamente la presenza di Gesù con noi. Anche le attese e le suppliche della Chiesa sono integrate molto bene nell’Anafora. Contiene le preghiere per i deboli, gli oppressi, i martirizzati, i poveri, i rifugiati. Insomma, ha la bellezza della semplicità. L’Anafora di Addai e Mari è usata dalla Chiesa assira d’Oriente, e ha la caratteristica di non contenere in maniera esplicita le parole d’istituzione, quelle pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena («Prendete e mangiate, questo è il mio corpo… Prendete e bevete, questo è il mio sangue… Fate questo in memoria di me»). Anche la Chiesa siro-malabarese ha usato la forma tradizionale di quell’anafora fino al sedicesimo secolo, senza interpolazioni. Ma i teologi latini sostenevano che senza le parole dell’istituzione non c’era vera consacrazione, quindi consideravano non valida l’Anafora di Addai e Mari. Poi, nel 2001, il Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani, con il consenso della Congregazione per la Dottrina della fede, ha riconosciuto la validità di quell’anafora, usata da tempi immemorabili anche nel nostro Qurbana, il sacrificio eucaristico secondo il rito malabarese.

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