Impronte armene in laguna

pg8-bookdi SIMONA VERRAZZO

Cinque secoli sono passati dalla stampa del primo libro in lingua armena, che vide la luce a Venezia. Una tappa fondamentale del rapporto tra la Serenissima e la popolazione caucasica, una data da ricordare con una mostra-evento che si snoda lungo i più importanti musei della città lagunare: «Armenia. Impronte di una civiltà», fino al 10 aprile 2012 presso il Museo Correr, il Museo Archeologico Nazionale e le sale monumentali della Biblioteca Nazionale M a rc i a n a . L’esposizione celebra non soltanto l’anniversario di metà millennio, ma anche la designazione di Yerevan quale prossima Capitale mondiale del libro. Ogni anno, dal 2001, l’Unesco celebra il 23 aprile la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, investendo una città del titolo: Yerevan lo erediterà il 23 aprile 2012 da Buenos Aires (Argentina), che a sua volta lo passerà il 23 aprile del 2013 a Bangkok (Thailandia). Non poteva esserci luogo migliore di Venezia per festeggiare questa importante ricorrenza, visto il particolare legame che da secoli scorre tra il capoluogo veneto e la cultura armena. La scelta di un percorso espositivo che coinvolge più poli museali offre l’occasione di muoversi per la città e scoprire le sue “zone armene”: l’Isola di San Lazzaro, donata nel 1717 dalla Serenissima all’abate Mechitar, che lì vi fondò con un piccolo gruppo di monaci la sua congregazione che prese il nome di ordine mechitarista; e calle e sotoportego dei Armeni, con la chiesa di Santa Croce, la prima chiesa armena di Venezia. Il luogo di culto vide la luce dopo che nel 1253 venne istituita nella parrocchia di San Zulin la Casa armena, un ospizio per i commercianti armeni che giungevano in città. Il convitto fu realizzato grazie al lascito testamentario del nobile veneziano Marco Ziani, figlio del doge Pietro e nipote del doge Sebastiano. Una mostra, quindi, che si snoda lungo l’intera città e che ha un doppio filo conduttore, quello della fede e quello del libro, inestricabilmente legati tra loro: la fede si tramanda attraverso la lingua, che fissata sul libro non va perduta. «In tutto il loro percorso storico — scrive nel catalogo uno dei curatori, Gabriella Uluhogian — gli armeni hanno dimostrato uno speciale attaccamento alla propria lingua, definita metzask‘anch‘, la “tutta meravigliosa” (...) D all’amore per la lingua e per la scrittura all’amore per il libro il passo è breve. Il libro è il “luogo” per eccellenza dove lingua e scrittura durano nel tempo (...) la garanzia di una lunga memoria di sé». Oltre che da Gabriella Uluhogian, la mostra è curata da Boghos Levon Zekiyan e Vartan Karapetian, due sacerdoti provenienti dalla congregazione dell’Isola di San Lazzaro, tra i massimi esperti in materia. Oltre duecento i reperti in esposizione — manoscritti, miniature, documenti economici e architettonici, reliquiari e khachkar, le steli in pietra con incisa sopra la croce — alcuni dei quali provenienti dalla città di Echmiadzin, a una ventina di chilometri da Yerevan, dove sorge la Santa Sede della Chiesa Armena Apostolica. I libri e l’arte della stampa sono al centro della mostra con un anno, il 1512, che funge da spartiacque: cinque secoli fa vedeva la luce il primo volume in lingua armena, realizzato dal tipografo Hakob Meghapart. L'opera, destinata ad entrare nella storia, si chiamava Urbat argirk (Il libro del Venerdì) ed è un libretto di circa 120 pagine che spazia dalle preghiere per la guarigione delle malattie fino alle vite dei santi. Seguono nell’arco di tre anni altri quattro testi: Aght‘a rk‘ (collezione di scritti astrologici), un Messale, un Calendario e un libro di poesie, tutti caratterizzati da una marca tipografica costituita da un cerchio diviso in quattro parti, sormontato da una croce e con inscritte le lettere latine D.I.Z.A., il cui significato è ancora oggi sconosciuto. Un altro anno di svolta nelle relazioni tra Venezia e la comunità armena è il 1717 quando il Senato della città lagunare concesse all’abate Mechitar — giunto nel 1715 da Modone caduta nella mani dei turchi— l’utilizzo dell’Isola di San Lazzaro. Il progetto del religioso per il rinnovamento della cultura armena fu la base per una produzione scientifica e libraria ineguagliabile, tanto che ancora oggi il monastero da lui fondato ospita un museo con oltre 4.000 volumi e una biblioteca con più di 200.000 testi. Una passione lunga tutta una vita quella dell’abate Mechitar per i libri, basti ricordare che il Thesaurus della lingua armena (Bargirk ‘ haykazIan lezvi) venne pubblicato nel 1749, anno della sua morte. Il prezioso volume è conservato nella Biblioteca Nazionale Marciana e ora è esposto per l’o ccasione. Dalla diaspora ai commerci, dalla musica alle scienze, la mostra ripercorre “l’universo armeno” attraverso quindici sezioni: dalla prima all’ottava ospitate presso il Museo Correr, dalla nona alla dodicesima nel Museo Archeologico Nazionale, le ultime tre nelle sale monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana. Il filo condutture è sempre il libro. Non è esagerato dire che il popolo armeno si sia disperso in tutto il mondo: una delle comunità più importanti era a Madras, in India. Ma quello che ha fatto da collante attraverso lo spazio e il tempo è sempre stata la lingua, come segno di appartenenza. Tra le sezioni più interessanti della mostra figurano quelle dedicate all’alfabeto e alla scrittura, ospitate al Museo Correr. Durante il regno di Vramshapuh (392-414) e mentre era catholicos Sahak Part‘ev, intorno al 404-405, il monaco Mesrop Mashtots mise in atto quella che sarebbe stata una pietra fondamentale della storia armena: la traduzione della Bibbia nella lingua nazionale. Per riuscire nell’impresa serviva un alfabeto, che dopo un lungo lavoro vide la luce ed era composto da 36 lettere. Con queste, durante il Medioevo, si formarono tre forme di scrittura: y e rk a t ‘agir (scrittura di ferro, maiuscola), bolorgir (scrittura rotonda o piena, minuscola) e notragir (scrittura notarile). A queste, negli ultimi due secoli, si è affiancata la forma sheghagir (scrittura obliqua), oggi in uso. Altra unicità di quella armena è la presenza di lettere figurate antropomorfe, zoomorfe od ornitomorfe. In esposizione è possibile ammirare un Vangelo con scrittura t‘rch‘n agir, cioè ornitomorfa, risalente al XIV secolo, ennesima testimonianza dell’indissolubile legame tra fede e libro, che ha raggiunto nella cultura di questo popolo caucasico uno dei suoi più alti livelli.

© Osservatore Romano 4 gennaio 2012