Il breviario dei Balcani

È il terzo anno che me ne vado per Balcani. Ogni anno, quando l'autunno incomincia a tingere le foglie, mi prende la smania, inforco la moto e me ne vado, solo, incontro ai miei sei, settemila chilometri. Me ne vado per monasteri ortodossi. Per due-tre settimane è come se anch'io entrassi un po' in monastero. Il mio breviario è la moto, le mie Ore sono i monasteri che punteggiano la giornata, la mia cella la camera d'albergo, la luce sul comodino, un libro aperto sul petto, la televisione sempre accesa che mi sospinge verso il sonno con i notiziari in tutte le lingue slave di questo mondo (a che serve una televisione accesa se non ci capisci nulla? Serve, serve. Un uomo ha sempre bisogno di sentire una presenza che lo accompagna nella vita). Quest'anno mi dirigo verso la Romania per vedere tre eremi che ancora mi mancano, poi calo a sud-est per entrare in Bulgaria e poi iniziare, via Macedonia, il ritorno. In realtà, come tutti i viaggiatori sanno, c'è sempre una mèta che è più mèta delle altre, e tutto questo giro altro non è che una lunga meditata digressione per ritornare in Kosovo. C'ero stato lo scorso anno dopo aver disceso tutta la Serbia. Lì sono oltre 150 le chiese e i monasteri ortodossi distrutti nell'ultimo decennio dai nazionalisti albanesi.
Accompagnato da freddo, vento e pioggia, attraverso il confine rumeno, con i tre monasteri che mi aspettano. Il primo, manastirea Cozia (1389), l'avevo già visto. Ci sono tornato perché nel timpano superiore della facciata della chiesa c'è una Trinità da commuovere. Mi ero avvicinato a questo monastero come a tanti altri, consapevole che la quinta scenografica non sarebbe stata quella dei monasteri della Bucovina, eppure, quando quella Trinità inaspettata mi è apparsa alla fine del sentiero di cipressi che digradava lastricato di grosse pietre, mi sono dovuto fermare. La Trinità di Cozia è la maestà dell'essere. È l'essere che riposa presso di sé e, nel suo rifluire, si espande. Ti guarda e ti dice: «Guardami». Ti vede? Sì e no, non lo so. Il suo è uno sguardo che si guarda, che ritorna presso di sé. Essa solo esiste.
Il secondo monastero, manastirea Horezu, si presenta come una fortezza. Ci si arriva salendo dal villaggio omonimo. È un tardo pomeriggio, tra poco la luce andrà a reclinare. Più tardo del manastirea Cozia, Horezu è stato un importante centro di rinnovamento spirituale e culturale del paese (ma la mèta del pellegrinaggio popolare rumeno è Cozia, a me piace pensare che sia per via della Trinità). Subito la facciata della chiesa principale si presenta con il giudizio universale che è solito ricorrere nei tanti monasteri ortodossi. Al sommo il Cristo Pantocrator, sotto il Libro e da esso, il giudizio. A sinistra di chi guarda, ecco la schiera dei beati, alla destra i condannati a finire nelle fauci di Belzebù. I più interessanti sono, evidentemente, i poveri cristi destinati al pasto luciferino. A destra la schiera dei beati è in fidente e paziente attesa che San Pietro, armato di chiavi, apra il giardino del paradiso. A sinistra succede di tutto. Ecco una coppia che se ne sta bella bella a letto, ed ecco che nel quadro successivo è precipitata nel gorgo. Diavolini e diavoloni ne fanno di tutti i colori. Inforcano, impiccano, incatenano. Da un cerchio di sassi esce una mano che regge una stadera. Da una parte il piatto con le opere buone, dall'altra quello con le cattive. Sotto i diavoloni fanno balzi a non finire tentando di lanciare corde con ganci, appendersi e far pendere il piatto delle malefatte. E non è che sia finita con la morte. Appena l'anima, che altro non è se non un piccolo omino nudo che se ne esce dalla bocca dell'appena trapassato, fa per librarsi libera e leggiadra, ecco sempre i nostri diavoloni pronti a balzarle addosso per inforcarla. Per fortuna, schiere di angeli armate di lunghe sottilissime lance rimettono i diavoloni dove gli compete. Quadri della storia della salvezza universale (vecchio e nuovo Testamento) e nazionale (fondatori di monasteri, re, santi, re santi, martiri). C'è un po' d'orgoglio nel saper riconoscere le vicende narrate dalla storia della salvezza universale e io mi ci metto di puntiglio. A chi altri è dato di essere parte di una storia di popolo millenaria e universale? A chi altri è dato di saper leggere un linguaggio che è di tutti, dal più umile contadino al re?
Imbrunisce. Non si potrebbe, ma io salgo le scale che portano alle celle dei monaci. Dall'alto ho sotto di me tutto il monastero. Il canto dei salmi si è concluso. Improvviso, un battere di colpi a rompere il silenzio. Una monaca fa il giro delle mura percuotendo ritmicamente un grosso ceppo che trascina a spalla. Non c'è una variazione, non sbaglia un colpo. Che vorrà dire? Suggestioni lermontoviane e puskiniane, quando il servo-custode la notte era solito percorrere e ripercorrere la cinta delle mura attorno alla villa padronale, portando un pezzo di legno a spalla e percuotendolo a segnalare l'allerta agli eventuali malintenzionati? O, forse, è un battere sul legno per fare memoria della crocifissione di Cristo?

È tempo di Bulgaria
Il terzo monastero arriverà il giorno seguente dopo la solita razione di un qualche centinaio di chilometri. In pratica non si lascia visitare. I lavori di restauro ricoprono la gran parte delle pareti. Ma è già tempo di Bulgaria. Si scende per centinaia di chilometri per attraversare la frontiera sul Danubio sotto Bucarest. Quando un paese ha poco o niente di storia si dice che ha una gran natura, una gran fauna, e conserva un gran patrimonio di diversità biologica. Così è la Bulgaria. Avrei dovuto capirlo meglio scorrendo le pagine delle guide. Il massimo dell'offerta artistica coincide con case private di ricchi mercanti dell'ottocento trasformate in musei. Veliko Tarnovo, la prima meta, dipinta come una tappa obbligata per le sue bellezze, non regge il confronto con una delle più anonime cittadine italiane. Sarà perché i turchi ottomani hanno governato qui praticamente fino all'Ottocento spazzando via tutto. Non riesco a darmi un'altra spiegazione. Le storie nazionali di questi popoli sono troppo intrecciate perché possano essere giustificate differenze così marcate. Per intanto vado su e giù per centinaia e centinaia di chilometri tra prati, boschi, colline e foreste. L'avvicinarsi delle città è annunciato da lontano dallo stagliarsi di giganteschi monumenti in cemento armato, residuo dell'epopea socialista. Più oltre, invariabilmente, compaiono le baracche di paglia e fango, bambini cenciosi, donne sformate, qualche asino e animale da cortile. Senza un pensiero si guarda scorrere il susseguirsi ininterrotto delle centinaia di baracche. Salvo uno, arrivato chissà da dove: ma è proprio vero che Dio in questo momento ha a cuore, uno per uno queste donne, questi vecchi, questi bambini?
La Bulgaria non mi piace. I bulgari mi appaiono poi come quelli che più hanno assimilato i modelli occidentali: i più deteriori. Qui vedo i primi, almeno per me, sexy shop dei Balcani. Scelgo di far visita a due soli monasteri. Il primo, quello di Bachkovo, nasconderà i suoi tesori con sale sottratte ai visitatori o chiuse per lavori di restauro. Il secondo, il monastero di Rila, arriverà in una fredda mattina, dopo una lunga salita lungo valli di montagna interamente coperte di foreste. È immenso, imponente, con torri di avvistamento e difesa, completamente affrescato sia all'interno sia all'esterno con colori squillanti.
Tutt'intorno, centinaia di celle dei monaci, alcune delle quali riccamente arredate. Le guide dicono che sia l'unico monastero ad aver resistito, almeno parzialmente, alla furia distruttrice dei turchi. Aveva tale e tanta fama di santità, era talmente oggetto della devozione e della pietà nazionale che nemmeno loro si sono arrischiati a raderlo al suolo. Penso che i bulgari li avrebbero impalati. È giornata di battesimi al monastero di Rila e lo svolgersi dei riti è suggestivo, ma anche qui, nel luogo più sacro della Bulgaria, ritorna la prima impressione. Le mamme portano i figli al fonte in desolanti minigonne, i parenti fanno confusione tra loro e si accorgono del battesimo solo quando è finito e c'è da portare via il bambino.

In Kosovo più banche che chiese
Dalla Bulgaria alla Macedonia non son molti chilometri. Quest'anno la Macedonia è solo una tappa di avvicinamento al Kosovo. E sì che è carica di gioielli. I suoi monasteri sono una meraviglia, la cittadina di Ocride con il suo lago e il monastero di Naum a sud, uno spettacolo. Ma per ora devo tornare in Kosovo, passare Gracanica, puntare Pristina, la capitale, e da lì, lungo la veloce strada che attraversa tutta la piana, raggiungere Pec. Qui mi aspetta la Pecka Patrijarsija, un complesso di quattro chiese costruite nel XIII e XIV secolo, quando il patriarcato di Pec cresceva di potenza in potenza ed era arrivato a estendere la sua giurisdizione fino al mare a sud, e all'Ungheria a nord.
In Kosovo ci sono ormai più banche che chiese; da Pristina a Pec è un rincorrersi di nuovi motel dai colori squillanti e dai nomi che richiamano e inneggiano agli Stati Uniti, i veri eroi da quando gli Usa hanno appoggiato la richiesta di indipendenza. Dentro la televisione non funziona, acqua e luce vanno a intermittenza, ma fuori esplodono in giardini pensili, in torrenti circondati di rocce che scorrono a cascatelle, laghetti e piccole piscine, le luci sotto il pelo dell'acqua a imitare Hollywood.
Non mi piace questa gente. Come ti fermi ti circondano, non hanno nulla da fare e si interessano di tutto. Solo uno ha però il mandato di aprire bocca, gli altri ascoltano e annuiscono, oppure obbediscono a un cenno della mano. Fatti sloggiare per la quasi totalità i serbi, la popolazione è ormai nella stragrande maggioranza di etnia albanese e di religione musulmana. Albanesi e musulmani: non ci siamo. Ho litigato con un amico che mi ricordava le sofferenze patite da queste popolazioni sotto il comunismo: «Comunque meglio oggi che prima», gridava.
Sarà, però io scendendo dalla Serbia ho trovato un popolo povero, che ancora paga le conseguenze della guerra d'attacco della Nato, dignitoso, riservato, consapevole di sé e della propria storia; qui in Kosovo, ho visto gente arricchita, sbracata, continuamente in transumananza collettiva per le strade a far niente. Sarà anche che ogni volta che arrivano i militari, forze di pace o di interdizione che siano, seguono sempre soldi facili, e corruzione e prostituzione. L'hotel in cui prendo alloggio guarda caso si chiama Hotel Gold. È gestito da due fratelli albanesi. Mi parlano dell'Italia, di Arezzo, di Valenza, di Grado, conoscono loro più orafi italiani che io piastrelle di casa mia. E non a caso il Kosovo è segnalato in tutti i rapporti come la nuova centrale di smistamento della corruzione europea. È sabato sera quando rientro all'albergo dopo cena. Il muezzin canta sopra tutta la città. Passo davanti una moschea. Stanno pregando. Non ci stanno tutti e si allineano sul marciapiede e sulla strada.

Dalla moschea al patriarcato
Da una finestra laterale della stanza di preghiera li guardo non visto. Sono fervorosi, gli occhi chiusi, le labbra a recitare mute preghiere quando non devono rispondere all'officiante. Sono solo maschi, ci sono anche bambini. Si muovono all'unisono; si inginocchiano, si inchinano, si rialzano. Puntuali, precisi. A centinaia. Sono a casa loro e ci stanno bene. La mattina dopo sono al patriarcato di Pec. Anche qui sbarramenti di militari italiani a controllare documenti e rilasciare permessi. Il complesso delle quattro chiese è di una bellezza commovente. tappezzato di preziosissimi affreschi della scuola di Raska. Una dolcissima Madonna del latte nel nartece della chiesa di destra, un Giudizio finale e un Calendario, una nascita della Vergine, un Agnello mistico, una vita dei Santi, l'Ascensione nella prima chiesa, la discesa al limbo, i Santi guerrieri. Ogni volta che si rientra sotto il mantello di un monastero ortodosso riesplode il mistero della storia e dei popoli. C'è di più nell'uomo che non l'uomo. È domenica mattina. Anche qui come la sera prima alla moschea, stanno pregando. Una vecchietta è ripiegata, il fazzoletto annodato in testa, su una panchina nell'esonartece. Altre due o tre vecchierelle sono all'interno nel naos. Una è sorretta dalla nipote. Un'altra giovane sta accendendo candele. C'è anche un vecchio, unico uomo assieme ai due monaci che concelebrano. Una monaca assiste. Lo sguardo si apre radioso quando, prima di andarmene, porgo la mia offerta. La giovane monaca sa che l'offerta è un'inchinarsi, a lei, ai fedeli ortodossi, ai monaci e a tutta la storia millenaria che li ha portati fino a noi. Fuori, al di là dei portoni borchiati di ferro, al di là delle cinta di mura, delle garitte, dei cavalli di frisia e del filo spinato, aldilà dei blocchi dei militari italiani c'è tutto un mondo che scorre indifferente solo perché non gli è data l'occasione di scatenarsi. Verrebbe voglia di inchinarsi alle vecchierelle, alle giovani, alle monache e ai monaci, agli ultimi tabernacoli viventi, nelle terre dei santi Cirillo e Metodio, patroni della nostra Europa, incarnazione ostinata di una presenza che vuole rimanere fra noi.

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