Icone di terra e sabbia

maria-egiziacadi GIOVANNA PARRAVICINI

L’ icona non ha avuto altra preoccupazione, sin dall’inizio, se non quella di esprimere il mistero divino come esso si rivela e si rende visibile all’uomo. È questo, da un lato, a dettare il canone, e dall’altro a consentire la libertà dell’artista nel seguirlo. Oggi non è facile tornare a quest’essenzialità: associazioni e scuole che in Italia si dedicano all’icona rischiano sovente uno spiritualismo vago e un po’ esotico, che poco ha a che fare con una seria ricerca artistica.
E d’altro canto, in Russia, dove l’icona è una tradizione viva e la riapertura di moltissime chiese negli ultimi vent’anni ha richiesto un notevole sforzo agli artisti, si rischia di ridurre la pittura di icone a un’imitazione formalmente ineccepibile ma puramente esteriore di moduli e stili del passato. C’è però anche chi, come Irina Zaron e Sergej Antonov, è alla ricerca dell’antico spirito dell’icona nel tentativo di riproporlo creativamente. Un pittoresco angolo di Mosca ai piedi della Collina dei Passeri, a cui si accede attraverso una ripida tortuosa discesa che porta fin sulla riva della Moscova, dove sorge il monastero di Sant’Andrea; qui fra gli antichi edifici che oggi ospitano la Biblioteca Sinodale c’è una chiesa costruita nelle mura di cinta, «sopra le porte» di ingresso al monastero, e recentemente riaperta al culto. In epoca sovietica gli arredi sacri erano andati distrutti, e gli affreschi e le icone che si vedono oggi sono opera di Irina Zaron, mentre i bassorilievi in pietra e in legno sono di Sergej Antonov, suo marito. Insieme a loro, che in un’attività ormai ventennale hanno in qualche modo recuperato le modalità del lavoro di squadra tipiche degli iconografi medievali, ha partecipato attivamente all’impresa il parroco, Boris Danilenko, dettando le linee generali del programma decorativo. Irina e Sergej mi accolgono nel luminoso laboratorio adiacente alla chiesa, dove sui cavalletti e appoggiati alle pareti si alternano icone, bassorilievi, quadri a soggetto religioso e paesaggi, e campeggiano due monumentali crocifissi lignei di oltre tre metri, dalle linee essenziali, gravi e solenni e insieme dinamiche, in cui la curva del dolore si fonde con la spinta della risurrezione. Fra queste opere così diverse fra loro si avverte un respiro profondamente unitario, una radice comune. Proprio di qui, dalle radici di una scelta che evidentemente oltrepassa il «mestiere», prende le mosse la nostra conversazione: da quale storia, da quali esigenze e intuizioni sono nate? Sergej e Irina si sono conosciuti al prestigioso Istituto d’arte Stroganov, dove si sono diplomati rispettivamente nel 1979 e nel 1980, in scultura e in pittura monumentale. Si sono sposati giovanissimi, già al secondo anno di Istituto, e al quarto nasceva il loro figlio Pavel. In quegli anni tra le giovani generazioni esisteva un diffuso interesse per la tradizione artistica del passato, ma si trattava di un interesse puramente estetico, culturale: «Andavo al museo Rublëv a copiare le icone, all’istituto ho imparato le tecniche dell’affresco, della tempera, del mosaico, su cui mi sono tra l’altro diplomata; ho potuto vedere da vicino, salendo sulle impalcature, gli affreschi della chiesa della Trinità nella Lavra di San Sergio — ricorda Irina — senza che questo, tuttavia, mi ponesse il problema della fede e della Chiesa». Per le famiglie di entrambi la tradizione cristiana è un legame spezzato, nonostante le ascendenze cristiane. L’incontro con la fede e il battesimo, per i due artisti, avverrà solo qualche anno dopo, in un periodo che li vede ormai professionalmente affermati. Sergej appartiene all’Unione degli Artisti, entrambi producono, espongono, vendono bene, alcune loro opere vengono addirittura acquistate dalla Galleria Tre t ’jakov e dal Museo Russo. Eppure in entrambi c’è un fermento di insoddisfazione, di domanda. «L’Annunciazione che in seguito mi è stata acquistata dalla Tret’jakov l’ho scolpita nel 1985, non ero battezzato. Per di più, i miei amici mi sconsigliavano in tutti i modi di imbarcarmi in quell’impresa, chi mai poteva essere interessato a un soggetto del genere? — ricorda Sergej — E invece non sono passati due anni e la situazione si è capovolta. Lì ho capito che bisogna fare solo quello che interessa realmente, ma soprattutto che la mia opera d’artista esprimeva un’attesa». Sono gli anni della perestrojka, in cui cominciano a circolare testi cristiani e a Mosca diventano famose le lezioni pubbliche di padre Aleksandr Men’. Sergej e Irina ci vanno, e ascoltandolo succede qualcosa: «Aveva il volto di un profeta biblico - ricorda Sergej - volta il metropolita Antonij di Surož disse: “Non si può credere in Dio, se non vedi brillare un riflesso di eternità negli occhi di qualcuno”. Per me questo “qualcuno” è stato padre Aleksandr. Così ho fatto una cosa che è rimasta per me stesso incredibile: dopo la lezione mi sono avvicinato e gli ho chiesto se poteva battezzarmi insieme alla mia famiglia. Mi aspettavo che mi facesse delle domande, delle obiezioni… Devo dire che fino a quel momento vari aspetti esteriori della Chiesa ci suscitavano una certa diffidenza, estraneità. Lui invece mi accolse incondizionatamente, sebbene fosse la prima volta che mi vedeva, e ci invitò a venire da lui in chiesa». Così, il 14 aprile 1990, pochi mesi prima di essere ucciso, padre Men’ battezza tutta la famiglia nella sua chiesa a Novaja Derevnja. È l’inizio di una nuova vita. Anche professionalmente il battesimo segna una svolta: Irina comincia a dipingere icone e trova risposta a una domanda che la inquietava da tempo: «Prima continuavo a chiedermi a che cosa servisse, in fondo, il mio lavoro. Le mie opere erano abbastanza richieste, avevano un certo mercato, ma a me non bastava: sentivo il desiderio di fare qualcosa di realmente utile, necessario. È stata un’immensa gioia dipingere la prima icona, pensare che sarebbe andata in una chiesa, che sarebbe servita a delle persone: trovavo un nuovo significato nel mio lavoro». D’altro canto, questo nuovo servizio alla Chiesa si svolge nel segno della continuità con molti aspetti della tecnica e delle scelte artistiche fatte fino a quel momento, che trovano impiego anche nella pittura monumentale e nelle icone: in queste ultime Irina usa la tradizionale tempera all’uovo, ma la tavolozza è laconica, evita i fondi dorati e i colori puri, vistosi, impiega soprattutto terre, tonalità neutre e ascetiche, fino a rinunciare alle sfumature o pennellate di rosso sulle gote; l’espressività del volto emerge da un complesso lavoro di «illuminazione» realizzato attraverso mani successive di ocra progressivamente schiarita. Ne emerge una carne realissima ma trasfigurata, in cui ascesi, veglie, rughe assumono i connotati della luce, di una somiglianza a Dio che ne echeggia lo splendore. Il primo grande lavoro di arte sacra è per la loro comunità: nel 1992 uno dei sacerdoti di San Giovanni viene inviato ad aprire una nuova parrocchia nella chiesa di San Nicola nel vicolo Golutvinskij, del XVIIsecolo, chiusa nel 1923 e “decapitata” delle cupole e del campanile, e si rivolge a Irina e Sergej perché lo aiutino. Sergej per qualche tempo diventa addirittura il responsabile del consiglio pastorale. Occorre ricostruire completamente l’interno, dall’architettura agli arredi sacri; Sergej si assume il ruolo di progettista e coordinatore, Irina insieme ad alcuni amici dipinge l’iconostasi: il lavoro li assorbe, nel complesso, per undici anni, anche perché per realizzare il progetto bisogna riannodare i molteplici legami di una tradizione interrotta, recuperare nei limiti del possibile la tecnica, la tradizione, il senso di ciò che si raffigura: così Irina rispolvera le tecniche apprese all’Istituto d’arte, si consiglia con artigiani e restauratori, ma soprattutto si rivolge alle icone antiche, trascorre ore e ore alla Galleria Tret’jakov per “i n t e r ro g a r l e ”, penetrarne il linguaggio e darsi delle priorità, dei punti di riferimento. «Conservo un mucchio di taccuini di appunti di quel periodo, nati davanti alle icone, e anche adesso, quando i ragazzi mi chiedono consigli, dico sempre loro di confrontarsi con le icone “vive”». Irina Zaron e Sergej Antonov realizzano qualche anno dopo la decorazione della chiesa della Protezione nel monastero di Sant’Andrea, e qualche tempo fa hanno cominciato a lavorare in una cappella laterale, dedicata a San Serafim di Sarov, nella chiesa di San Sergio di Radonež nel vicolo Krapivenskij. In quest’ultima Sergej ha proposto una soluzione realmente innovativa, accolta con entusiasmo dal parroco, padre Aleksandr Abramov: un’iconostasi in pietra scolpita che riunisce i temi fondamentali dell’iconostasi in una grande croce. In parallelo, i due artisti stanno lavorando per una nuova chiesa in costruzione a Domodedovo, appena fuori Mosca, dedicata a santa Maria Egiziaca. Icone, affreschi, bassorilievi dei due artisti recano un’impronta molto personale, e ancor più creativa è l’o rg a n i z z a z i o n e dei singoli elementi all’interno dello spazio sacro. Gli autori lo ammettono apertamente, rivendicando nel contempo la piena legittimità del loro modo di procedere, perché le loro proposte non nascono come una pretesa di strappare delle concessioni alla tradizione, ma, al contrario, dall’esigenza di rispondere al canone rivivendolo nel contesto della cultura cristiana odierna. «All’artista si richiede un atteggiamento di attenzione e rispetto per la realtà, un paragone continuo con la propria esperienza cristiana personale, il resto è affidato alla sua creatività e responsabilità. In questo senso, il servizio dell’iconografo resta oggi quello di sempre, è una vocazione e non solo un mestiere» ribadisce Sergej. «Siamo responsabili di quello che facciamo ma anche e soprattutto di quello che non facciamo, che non abbiamo il coraggio di intraprendere. È facile accontentarsi, limitarsi a percorrere vie note, piacere ai committenti con scelte scontate e in tal modo raggiungere risultati gradevoli e apprezzati. Ma non è un servizio alla Chiesa».

© Osservatore Romano - 27 luglio 2013