Da ottocento anni lungo i passi di Gesù · A colloquio con il custode di Terra Santa ·

custode TS 2019 04 30 004514Gli odori, i colori e i rumori della Pasqua gerosolimitana entrano nelle stanze del complesso di San Salvatore, appena dietro l’angolo della Porta Nuova, dove risiede il custode di Terra Santa. Francesco Patton, 55 anni, francescano originario di Trento, esperto in comunicazioni sociali, è da

quasi tre anni il responsabile della Custodia di Terra Santa, ossia colui che coordina la presenza dei frati della corda nei luoghi della vita terrena di Gesù di Nazareth.

La Custodia estende la sua giurisdizione oltre i confini della terra di Gesù (oggi Israele e Palestina), comprendendo anche la Giordania, l’Egitto, Cipro, Rodi, il Libano e la tormentata Siria: una missione vastissima e impegnativa.

È vero, si tratta di una responsabilità enorme rispetto alle popolazioni cristiane di queste terre, rispetto ai frati che vi si dedicano e soprattutto rispetto alla Chiesa universale che ci ha affidato tale onore e tale responsabilità. Vi confesso che quando, nel 2016, mi fu comunicato questo incarico, inaspettato, non ci ho dormito per un paio di notti.

Nel 2017 si sono celebrati gli ottocento anni della presenza francescana in Terra Santa e nel 2019 l’ottavo centenario del famoso incontro a Damietta tra san Francesco d’Assisi e il sultano al-Malik al-Kamil.

 

In effetti le nostre origini risalgono già al 1217, quando il capitolo generale dei frati minori convocato dallo stesso Francesco decise di organizzare l’ordine in province e istituì la cosiddetta “Provincia di Oltremare”, antesignana della Custodia, e che allora comprendeva un po’ tutte le sponde orientali del Mediterraneo. A guidare il primo gruppo fu frate Elia Buonbarone da Cortona, personaggio intraprendente; qualche anno dopo lo ritroveremo amico e consigliere di Federico ii di Svevia. Ma il momento decisivo fu appunto nel 1219, quando Francesco, al seguito della quinta crociata, si imbarcò da Ancona alla volta dell’Egitto, dove i crociati stavano combattendo una dura battaglia per la conquista di Damietta. E lì, contravvenendo al consiglio dei più, autorizzato a suo rischio e pericolo dal legato pontificio, Francesco superò le linee di combattimento e incontrò al-Malik al-Kamil.

Sappiamo che il sultano rimase colpito dalla presenza del poverello di Assisi, che ammirò per il suo coraggio ma soprattutto per la sua mitezza e volontà di dialogo.

Quell’incontro ha per noi un valore molto più importante del mero fatto storico nell’agiografia del santo. Mi lasci dire che in esso c’è piuttosto la quintessenza della spiritualità, e anche della teologia, francescana. È la logica del dialogo innanzitutto, del dialogo a ogni costo, del dialogo fonte esclusiva di pace. Per questo a febbraio scorso ci siamo recati a Damietta, e poi all’al-Azhar, per ricordare l’evento e incontrare le autorità religiose islamiche. È una fraternità che viene costruita dal basso, dalle esperienze di vita quotidiana. Non ignoriamo ma presupponiamo le differenze dottrinali, e affrontiamo piuttosto le difficoltà della vita che sono le medesime per tutti. Così rimaniamo nello spirito di Damietta. Le faccio un esempio: le nostre scuole sono frequentate da molti studenti musulmani, a Gerico sono il 96 per cento, ma per loro lo studio e la formazione sono il solo strumento di emancipazione sociale, di educazione alla tolleranza, di costruzione di una cultura di pace; e noi non ci sottraiamo al loro aiuto. A Gerusalemme poi c’è una scuola di musica, il «Magnificat», dove docenti e studenti sono ebrei, cristiani e musulmani.

Dopo l’incontro col sultano le tracce del viaggio di Francesco si confondono. È mai arrivato a Gerusalemme?

Non lo sappiamo. In effetti non c’è documentazione della sua presenza a Gerusalemme, che rimase occupata dai musulmani fino a dopo la sua morte. Però c’è un particolare importante da non sottovalutare. Quattro anni più tardi, nel 1223, Francesco organizza la celebrazione dell’eucarestia in una grotta di Greccio riproducendo la scena della Natività e trasformando una mangiatoia in altare. Il che lascerebbe pensare che Francesco sia rimasto impressionato e ispirato da una recente visita a Betlemme, dove si celebra accanto alla mangiatoia. E se è stato a Betlemme, nulla ci impedisce di pensare che si sia spinto per altri otto chilometri a nord fino a Gerusalemme.

Nel corso di questi otto secoli la Custodia ha attraversato molti momenti critici.

Di sconquassi ne abbiamo attraversati molti. Mi viene da pensare per esempio alla caduta del regno latino nel 1291 a San Giovanni d’Acri, quando i frati furono costretti alla fuga verso Cipro, o a quando nel 1551 venimmo espulsi dal Cenacolo (che era stata la prima sede della Custodia) e trovammo ospitalità presso gli armeni. Ma pensiamo anche ai terremoti, frequenti in Terrasanta, o alle epidemie di peste, allo scontro tra gli ottomani e le potenze europee, alla faticosa definizione dello statu quo a metà del XIX secolo. Infine il secolo XX, quando siamo rapidamente passati dalla giurisdizione giordana a quella israeliana. Nel 1967 la linea verde del confine tra la Gerusalemme israeliana e quella giordana passava proprio qui sotto, poco fuori la finestra del mio studio. Abbiamo ancora alcuni frati anziani che ci raccontano del repentino cambiamento portato dalla Guerra dei sei giorni. Furono momenti difficili. Solo nei mesi scorsi è stato sminato il terreno circostante il convento sito sul luogo del battesimo di Gesù, vicino a Gerico, che era stato abbandonato precipitosamente in quei giorni. Lo abbiamo ritrovato intatto come i frati lo avevano lasciato mezzo secolo fa: in sagrestia c’era ancora il libro delle messe aperto alla data del giorno dell’abbandono. Ora padre Sergey Loktionov, responsabile del nostro ufficio tecnico, sta lavorando perché torni presto a essere un convento vivo, di supporto ai pellegrini che visitano il sito. Non che questi giorni siano i più felici: la situazione delle popolazioni che vivono nei territori della cosiddetta West Bank, cristiani e non, e di quelli che vivono a Gaza, ci preoccupa sempre di più. Basta fare qualche chilometro, verso sud, verso Betlemme, oltre il muro, dove si vivono quotidianamente situazioni che non causano solo povertà materiale ma disagio psicologico.

Patriarcato, nunziatura, custodia hanno competenze diverse. Cosa fa esattamente il custode di Terra Santa?

Lo dice la parola stessa: il compito principale che la Chiesa universale ci ha affidato è quello di custodire i luoghi che hanno visto l’esperienza umana di Gesù, e i santuari che vi sono stati costruiti. Quello che Papa san Paolo VI con felice espressione ebbe a chiamare il “quinto vangelo”. Ma non solo: prima di custodire i siti occorre custodire i custodi, cioè i frati. Il mio primo lavoro è il servizio di guida, orientamento e animazione ai frati. Sono circa trecento, di cui circa la metà sono quelli che noi chiamiamo figli della Custodia mentre l’altra metà è composta da frati inviati da altre province per periodi più o meno lunghi. La formazione teologica avviene qui nel compound conventuale di San Salvatore, mentre la filosofia si studia a Ein Karem, luogo di nascita di Giovanni il Battista. Ma il nostro fiore all’occhiello è lo Studium Biblicum Franciscanum, che ha sede presso il convento della Flagellazione. Nello stesso luogo dalla scorsa estate ha riaperto i battenti il museo della Custodia, diretto da padre Eugenio Alliata, noto docente di archeologia biblica. Ma i frati della Custodia non sono solo guardiani dei santuari di Terra Santa, sono anche operatori pastorali, molti sono parroci. Pensate ai nostri quindici frati in Siria, e non scordate di pregare per loro e per la loro gente. Tanti sono guide spirituali per numerosi pellegrini che ogni anno affollano le nostre strade. È una realtà grande e complessa, quella della Custodia: trecento frati per oltre settanta santuari, un circuito di case per l’ospitalità dei pellegrini (le “Casa Nova” a Gerusalemme, Ein Karem, Betlemme, Nazareth), oltre mille dipendenti civili, scuole che ospitano quasi diecimila studenti. Cerchiamo di attivare intorno al pellegrinaggio anche un circuito economico virtuoso, perché il pellegrino oltre a pregare e a formarsi contribuisca al sostegno economico delle famiglie locali cristiane, e non solo. È molto importante questa forma di carità perché in cima ai nostri obiettivi c’è il cercare di evitare la diaspora dei cristiani dalla terra di Gesù. Per questo contiamo sul sostegno di tutte le altre chiese del mondo: favorite i pellegrinaggi. La Terra Santa è comunque sicura e l’esperienza spirituale che è data dal pellegrinaggio trasforma in modo decisivo la nostra fede. Per me, per i miei frati, amare e vivere la terra di Gesù è parte essenziale e imprescindibile dell’essere francescani. (filippo morlacchi e roberto cetera)

© Osservatore Romano   26.4.2019