Special Pan-Orthodox Council Wall

Questioni procedurali ma anche ecclesiologiche

armenia chiesadi HYACINTHE DESTIVELLE

La riflessione che ha preparato il concilio panortodosso si è incentrata essenzialmente sui suoi documenti, poco sul suo funzionamento. Ebbene, in questi ultimi giorni da alcune Chiese locali sono state sollevate soprattutto questioni relative al regolamento, per motivare il loro ritiro o chiedere il suo rinvio. Il patriarcato di Antiochia ha deplorato che non si sia tenuto conto delle sue riserve sul regolamento del concilio, che tra l’altro il suo primate non aveva firmato durante la sinassi del gennaio 2016. Ma è soprattutto dal patriarcato di Serbia che sono giunte le critiche più dure: «Noi non riconosciamo in esso [il regolamento] la tradizione secolare viva e conciliare di convocazione, di presidenza, di svolgimento e di guida del concilio».
Anche la recentissima decisione del patriarcato di Mosca, che ne ha chiesto il rinvio, è stata in gran parte motivata da considerazioni relative al regolamento. Le questioni riguardanti la composizione, il metodo di lavoro e la presa di decisioni in un concilio non sono solo procedurali ma anche ecclesiologiche. Per quel che concerne la presa di decisioni, il principio dell’unanimità, espressione migliore della comunione, è stato adottato fin dal 1961 dalle conferenze panortodosse e confermato da quella preconciliare del 1986. Mentre alcune Chiese si sono mostrate favorevoli all’introduzione del principio maggioritario, ritenendo che il voto per consenso rischiava di dare un diritto di veto, altre hanno difeso il mantenimento del principio dell’unanimità per cautelarsi dal rischio di non ricezione delle decisioni conciliari nelle Chiese locali il cui punto di vista sarebbe stato minoritario. Il patriarcato di Mosca ha ricordato con forza la necessità del rispetto di questo principio per la convocazione stessa del concilio che, secondo il regolamento, si può tenere solo con il consenso dei primati di tutte le Chiese ortodosse (articolo 1). In realtà, la questione della procedura di adozione delle decisioni è indissociabile da una seconda questione, ancora più essenziale: quella della composizione del concilio. Le conferenze panortodosse preconciliari erano composte da delegazioni uguali per ogni Chiesa. Alcune però sostenevano che una tale composizione non teneva conto delle differenze esistenti tra Chiese che hanno diverse centinaia di vescovi e altre che ne hanno solo alcuni. Occorreva allora convocare tutti i vescovi di tutte le Chiese ortodosse locali, che attualmente sono circa 850, dei quali 600 ordinari? È questa la posizione del patriarcato di Mosca (circa trecento diocesi) che, nella sua decisione del 13 giugno, ha ritenuto «vivamente auspicabile che tutti i vescovi delle sante Chiese di Dio possano partecipare senza limitazione al futuro concilio, il che accrescerebbe necessariamente l’autorevolezza delle decisioni prese». Oppure bisognerebbe mantenere il principio della rappresentanza, introducendo una certa proporzionalità in base al numero dei vescovi, delle parrocchie, anzi dei fedeli? Inoltre, bisognerebbe limitare il concilio ai vescovi o includere anche clerici e laici, come avviene nei concili locali di alcune Chiese ortodosse? La sinassi dei primati, nel marzo 2014, ha mantenuto il principio di rappresentanza uguale ma aumentata: ogni Chiesa avrebbe inviato una delegazione costituita dal suo primate e da 24 vescovi, oppure da tutti i vescovi per le Chiese che ne avevano meno. Il voto non sarebbe stato per vescovo, ma per delegazione, mantenendo così la regola dell’unanimità. Queste decisioni sono state introdotte nel regolamento adottato dalla sinassi del gennaio 2016: «Il voto è legato alle Chiese ortodosse autocefale e non a ognuno dei membri delle loro delegazioni al concilio […] Ogni Chiesa autocefala dispone di un solo voto». Il regolamento precisa che la questione di eventuali disaccordi tra vescovi di una stessa delegazione «è interna alla Chiesa autocefala nella quale si sono manifestati, la quale può basare il proprio voto finale sul principio della maggioranza interna, espresso dal suo primate» (articolo 12). Mutatis mutandis, una tale procedura di voto non può non ricordare quella del voto per nazione adottata durante il concilio di Costanza (1414-1418) su pressione dell’imp eratore Sigismondo. Ma è una novità nella tradizione ortodossa, che pur dà grande importanza all’ecclesiologia della Chiesa diocesana. È ciò che ha denunciato il patriarcato di Serbia nel suo messaggio del 25 maggio scorso: questa procedura introduce a suo parere «una pratica sconosciuta ai concili della Chiesa ortodossa che si sono tenuti fino a ora». Di fatto, «i vescovi, nel concilio, sono partecipanti od osservatori? Oltre alla limitazione ingiustificata del numero dei partecipanti al concilio, noi consideriamo anche ingiustificato il fatto che tutti i vescovi non abbiano diritto di voto» si legge nel messaggio. In effetti, «il diritto di voto non è opposto al principio proclamato di consenso (…). La tradizione conciliare della Chiesa una sottintende il diritto di voto di ogni vescovo nel concilio, sia esso regionale o universale». Un terzo dibattito ha riguardato l’ordine del giorno del concilio. Il regolamento del gennaio 2016 stabilisce che «non possono essere introdotti per essere dibattuti nel concilio testi non approvati all’unanimità dalle conferenze panortodosse preconciliari e dalle sinassi dei primati, o temi nuovi, eccetto il messaggio finale del concilio» (articolo 8), anche se — come ha ricordato il patriarcato ecumenico nel suo comunicato del 6 giugno — p otrebb ero essere proposti e adottati emendamenti, a condizione che siano approvati all’unanimità» (articolo 11). Questa limitazione dell’o rd i n e del giorno è stata sempre più criticata nelle ultime settimane: mentre la Chiesa bulgara ha deplorato l’impossibilità di redigere testi nel corso del concilio, altre Chiese hanno chiesto l’introduzione di ulteriori temi o anche che il concilio sia l’o ccasione per dirimere i conflitti esistenti tra loro. Il concilio, suprema istanza decisionale nella Chiesa, non dovrebbe stabilire da solo il suo ordine del giorno? Come sottolinea il messaggio della Chiesa serba: «Nessuno, nella storia, ha fissato in anticipo e prescritto al concilio un regolamento di lavoro, ma è stato il concilio stesso a stabilirlo in uno spirito conciliare». È stato quindi affrontato un ultimo aspetto del funzionamento del concilio: la disposizione stessa dei padri conciliari. Il regolamento prevedeva che il patriarca ecumenico presiedesse il concilio e che i primati delle altre Chiese fossero «posti alla sua destra e alla sua sinistra», con dietro uno o due vescovi consiglieri. Lo scopo di tale disposizione era di riflettere la conciliarità e di evitare un presidente seduto di fronte agli altri. A quanto pare, è stato difficile metterla in pratica e la Chiesa bulgara ne ha fatto addirittura uno dei motivi del suo rifiuto a partecipare al concilio. Il patriarcato ecumenico nel suo recente comunicato ricorda che il principio della convocazione del concilio «è stato deciso e firmato a livello panortodosso, sia dai primati nelle loro sinassi, sia da ognuna delle delegazioni che hanno ricevuto i corrispondenti poteri durante il lungo processo preparatorio del concilio». Il regolamento è stato così adottato all’unanimità (con l’eccezione del patriarcato di Antiochia). Non prevedeva però la possibilità che una o varie Chiese fossero assenti. Non potendo essere il Santo e grande concilio della Chiesa ortodossa, l’incontro di Creta potrebbe allora trasformarsi in una sua nuova sessione preparatoria? È una delle tante domande alle quali dovranno rispondere le Chiese ortodosse nei prossimi giorni.

© Osservatore Romano - 15 giugno 2016