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INTERVISTA AL RETTORE DEL PIO P. CYRIL VASIL'

vasil.jpgDopo un anno abbondante da rettore, quali sono le sue impressioni?
Mi rendo conto che devo fare ancora moltissimo per svolgere fino in fondo il ruolo che mi è stato affidato. Bisogna rivedere diversi meccanismi istituzionali e procedurali, che vanno migliorati. Non sempre si riesce a realizzare una vera sussidiarietà dei ruoli e delle varie componenti dell'Istituto, tanto che devo talvolta intervenire in problematiche di altri livelli, che invece dovrebbero essere affrontate autonomamente da chi ne è responsabile: questo anche perchè il personale è insufficiente, e tutti dobbiamo occuparci di tante questioni e necessità pratiche per cui ci mancano i collaboratori.
Non credevo che avrei avuto così tanto da fare, pensavo fosse un po' più facile. D'altra parte le cose da fare aumentano con il desiderio di far crescere il PIO, e del resto non scompaiono tutti gli altri impegni. Ci sono sempre le attività di insegnamento: le lezioni, i rapporti con gli studenti, insomma il lavoro da professore. C'è tutta l'organizzazione della vita accademica, i rapporti con le istituzioni, con gli organi della Santa Sede, con la Compagnia di Gesù... Inoltre c'è l'impegno della comunità gesuita composta dai padri residenti al PIO, di cui per tradizione il rettore è il superiore; si tratta di una scelta buona e pratica, in passato si è provato anche a distinguere i due ruoli, ma questo comportava continui conflitti di competenze e di programmazione. D'altra parte, la nostra è una comunità con una precisa missione accademica, legata all'attività del PIO.


Come vive oggi il PIO, dopo aver celebrato l'anno scorso il 90simo della sua fondazione?
Direi che se la cava egregiamente. Novanta anni sono molti per un essere umano, ma per un'istituzione accademica sono ancora pochi, per cui possiamo dire che il PIO è ancora relativamente giovane, anzi che comincia solo ora a vivere una certa maturità. In un certo senso, possiamo dire che soltanto adesso, dopo i cambiamenti degli ultimi 18 anni, il PIO può dedicarsi veramente alla sua missione originaria; prima del 1990, infatti, tutto l'Oriente cristiano dell'Europa era escluso da una vera comunicazione, oggi invece può partecipare pienamente alla vita culturale ed ecclesiale. Sono caduti i muri creati dalla rivoluzione sovietica del 1917 e dalla divisione dell'Europa del 1948, che avevano costretto il PIO a lavorare maggiormente in funzione dell'Occidente per far conoscere le tradizioni dell'Oriente, ma non si poteva svolgere pienamente la sua missione primaria, cioè quella nei confronti dell'Oriente stesso.


In che cosa consiste precisamente questa missione?

La nostra priorità è quella di formare pastori e personale qualificato per le Chiese Orientali, cattoliche e non, e di fomentare un vero dialogo tra i due poli del mondo cristiano. Prima gli orientali che stavano da noi erano per lo più esuli o rifugiati, privati di un rapporto continuo e vitale con i propri paesi e le proprie Chiese di origine, ora possiamo mettere a confronto gli occidentali con degli orientali «autentici» e pienamente rappresentativi.
D'altra parte, all'apertura dell'Europa Orientale corrisponde oggi una chiusura maggiore del mondo mediorientale, soprattutto di quelle Chiese che non possono più godere delle precedenti protezioni (come ad esempio in Iraq) e oggi si trovano in una grave situazione di minaccia e oppressione; quindi continua per noi il compito di dare voce a chi si trova nella necessità, alle nuove «Chiese del silenzio».
Inoltre c'è da considerare il fenomeno nuovo dell'emigrazione di tanti orientali nei paesi dell'Occidente, che comporta la necessità di informare l'Occidente stesso sulle necessità culturali, pastorali e pratiche che comporta questa nuova immigrazione, che assume caratteri diversificati a seconda delle situazioni (in India, ad esempio, c'è anche una emigrazione interna). Noi ci occupiamo dei popoli dell'Oriente fin dove è arrivata l'evangelizzazione dei primi secoli, quindi fino alle regioni di antica evangelizzazione dell'India.
Le nostre priorità, insomma, si ridefiniscono continuamente, nella riscoperta della nostra vocazione originaria e nella risposta a nuove sfide; il tutto in un'ottica ecumenica che in origine non era cos9 fortemente evidenziata, anche se il PIO è stato fin da subito all'avanguardia in questo senso, anticipando molte posizione dell'ecumenismo moderno.


Come si presenta l'Anno Accademico in corso?

Come numero di iscritti manteniamo uno standard molto buono, siamo già a oltre 320. Mi rifaccio ancora alla mia esperienza di Decano del Diritto Canonico: portiamo avanti il programma triennale, con la programmazione principale e secondaria dei corsi ben impostata e sperimentata. Per la Facoltà di Scienze ecclesiastiche orientali siamo alla ricerca di un modello più equilibrato, per rispondere alle attese dei vari riti, tradizioni e gruppi etnici su cui ricade il nostro interesse accademico. E' un lavoro delicatissimo, su cui ci applichiamo da sempre alla ricerca della migliore sintesi e delle necessarie specializzazioni.


Come è composto il corpo dei Docenti?

Da sempre abbiamo tre gruppi di docenti: anzitutto i gesuiti, che sono la grande maggioranza dei docenti stabili, un gruppo di «esterni», che si sono affermati come presenze importanti e stabili nella vita dell'Istituto, e i docenti più occasionali, che vengono invitati a tenere corsi su argomenti molto specifici. Si trata di sacerdoti, religiosi e religiose, ma anche diversi laici e laiche. I gesuiti si impegnano a coprire un po' tutto l'arco delle attività accademiche, perchè questo è il compito affidato alla Compagnia, ma oggi non è facile formare dei buoni specialisti: c'è il problema della carenza di vocazioni, ma anche un'interpretazione meno rigida dell'obbedienza: una volta si imponeva al singolo gesuita la specializzazione a cui si doveva applicare. Oggi è necessario fare leva sulla passione, ci vuole più affezione alla materia che si affronta, bisogna ritrovare e fondare bene le motivazioni per il lavoro accademico specifico.
Inoltre la materia di cui ci occupiamo, l'Oriente cristiano, oggi va affrontata in modo più approfondito e più ramificato; 90 anni fa era una materia poco conosciuta, e bastava una conoscenza poco più che generica per diventare specialisti, mentre oggi si può e si deve chiedere molto di più in questo campo.
D'altra parte, la presenza di docenti non gesuiti è una tradizione originaria del PIO, che non è nato come istituzione gesuita, ed è quindi necessaria per esaltare la caratteristica del PIO di essere un punto di incontro di tutte le componenti dell'Oriente cristiano dentro e fuori la Chiesa Cattolica. Abbiamo avuto nel tempo anche docenti ortodossi, alcuni anche oggi.
Il livello dei docenti è comunque storicamente molto alto nella storia del PIO, e i «giganti» che c'erano nel passato hanno oggi i loro eredi, anche se la vera statura si misura sempre a distanza di tempo (anche i giganti di una volta forse al loro tempo non apparivano sempre così elevati).
La provenienza dei docenti è sempre più «orientale», in particolare dall'Europa dell'Est, e il nostro desiderio è che essi possano venire da tutte le Chiese Orientali, per la facilitazione che viene dall'appartenenza originaria alla tradizione rituale e culturale del proprio paese.


Chi sono gli studenti del PIO?

Abbiamo tre gruppi principali, gli studenti slavo-balcanici, quelli medio-orientali e gli indiani, e poi i non orientali, che vengono un po' da tutte le parti, soprattutto ospiti per corsi particolari che studiano in altre università. La stragrande maggioranza degli studenti ordinari, infatti, provengono dalle Chiese orientali; i più numerosi sono gli ucraini, i romeni e gli indiani. Molti provengono dal Medio Oriente, ma in numero minore di qualche anno fa, a causa delle guerre e delle difficoltà delle Chiese di questa parte del mondo. Abbiamo sempre una buona percentuale di studenti ortodossi, superiore al 10%.
Qualche tempo fa si diceva, e anch'io un po' pensavo, che il PIO finirà quando avrà «svezzato» istituti di buon livello in tutti i paesi dove stanno le Chiese orientali, che quindi non avranno più bisogno di mandare da noi i loro studenti. In realtà anche in quel caso, che comunque è di difficile realizzazione, il ruolo del PIO non verrà meno, per evitare che le singole Chiese si isolino e si chiudano nel proprio particolare; lo scambio tra le varie Chiese e tradizioni orientali, il confronto con l'Occidente, il clima di confronto e di apertura che si può vivere a Roma rimane sempre insostituibile.
Il livello degli studenti è decisamente superiore a quello di 10-15 anni fa, quando le Chiese dell'Europa orientale, appena riacquistata la libertà, per necessità inviavano a studiare i più volenterosi, che ovviamente partivano da una base molto carente di conoscenze culturali specifiche. Oggi queste stesse Chiese si possono permettere di scegliere in modo più oculato e di mandarci studenti più preparati; nei primi anni Novanta abbiamo avuto un improvviso aumento degli studenti, che però erano inferiori alle attese, oggi l'aumento è più contenuto, ma produce una qualità molto superiore nella specializzazione.
I nostri studenti devono avere il baccalaureato in teologia per accedere ai corsi di licenza e dottorato, e questo limita molto la partecipazione dei laici, che non svolgono il primo livello di studi teologici, quindi sono per lo più studenti di istituti religiosi e diocesi, anche se non mancano i laici. La maggior parte degli studenti religiosi vive nei Collegi orientali, posti sotto la guida della Congregazione per le Chiese orientali, e con loro abbiamo un rapporto costante e organico, con incontri regolari, partecipazione a ricorrenza e manifestazioni. Basti dire che il visitatore per i Collegi orientali incaricato  dalla Congregazione per le Chiese Orientali è il nostro ex-Rettore padre Hector Vall.

Che progetti ha il PIO per il presente e il futuro?
Abbiamo diversi progetti concreti, e alcuni sogni. Anzitutto ci dedichiamo molto al miglioramento delle strutture materiali e tecniche, dell'ammodernamento dell'edificio e delle sue funzioni e dell'aggiornamento della tecnologia e delle potenzialità dell'Istituto. Intendiamo continuare e sviluppare i progetti legati a conferenze, simposi e manifestazioni culturali, legate anche a collaborazioni che vorremmo rendere sempre più stabili e proficue, come quelle in Russia (con l'Istituto di San Tikhon e altri), con la Slovacchia, l’Ucraina e con diverse istituzioni anche in Italia, dove siamo sempre in contatto fecondo con bizantinisti, slavisti e islamologi. Dovrei fare un lungo elenco di incontri e iniziative di scambio culturale e spirituale, che vogliamo sempre più mantenere e ampliare.
I piani di sviluppo istituzionale sono meno immediati, ma non irrealistici: vorremmo riuscire ad aprire un'altra Facoltà, quella di storia, e rendere più sistematico e autonomo lo studio delle lingue, se non con una Facoltà, almeno con cattedre e programmi più completi. Del resto, il desiderio di fondare una vera Università dell'Oriente Cristiano sta negli stessi testi di fondazione del PIO, che già come è strutturata oggi è di fatto un'istituzione accademica indipendente. Ovviamente bisognerà trovare le forze, i mezzi e il consenso di tutti, soprattutto delle istituzioni ecclesiastiche da cui dipendiamo. Sarebbe una realizzazione di quanto espresso nei documenti del Concilio Vaticano II, dove si parla della necessità dell'Oriente cristiano di crescere e fiorire in tutte le sue potenzialità.
Sono molto importanti i progetti di relazione con l'esterno, sviluppate grazie all'aiuto di tanti amici che ci sostengono, come quelli dell'Associazione «Amici dell'Oriente Cristiano» da poco fondata e di cui il Rettore è per statuto il presidente, che ci ha permesso di aprire questo sito web e ci aiuta in diverse iniziative. Noi intendiamo valorizzare e far conoscere le attività del PIO, ampliare i rapporti, partecipare al dibattito culturale nei vari ambiti della Chiesa e del mondo accademico, delle associazioni e delle istituzioni interessate. Devo ringraziare tutti coloro che ci danno una mano, le istituzioni, i benefattori e i volontari, visto la limitatezza delle nostre risorse e del personale a disposizione: senza di loro non potremmo fare molto.


Qual è oggi il quadro complessivo dell'Oriente cristiano?

E' difficile parlare di un'unico Oriente cristiano, in realtà ci sono vari Orienti, dipende dal punto di vista da cui si guarda: dall'Europa è un conto, dall'America un altro. Si tratta di realtà ecclesiali, sociali e culturali molto varie.
C'é un Oriente dove prevale ancora la sofferenza: oppressioni, minacce, pericolo di sparire, soprattutto in quelle parti del Medio Oriente dove si è sviluppata una espressione meno tollerante dell'Islam. C'é un altro Oriente che è riemerso dopo una lunga oppressione, come in Europa orientale, che presente un volto più giovane e dinamico, pieno di speranze. C'è poi il volto fresco e raggiante della Chiesa in India; quando si visita l'India, pur con tutti i suoi problemi, si è circondati dai bambini e dai ragazzi. Bisogna saper guardare tutti i volti dell'Oriente, quello triste e impaurito, ma anche quello giovane e felice.
La globalizzazione e le nuove migrazioni hanno portato elementi nuovi al quadro complessivo. Le migrazioni di oggi sono diverse da quelle dell'inizio del XX secolo, nelle Americhe e in Canada, nelle steppe di Manitoba o a Winnipeg, dove le società si formavano tra gruppi provenienti tutti da paesi lontani per creare una nuova realtà unitaria. Oggi spesso si emigra per periodi limitati, per assunzioni a lavori stagionali, anche per le donne, per poi tornare al proprio paese e migliorare le condizioni di vita. Si creano strutture più elastiche, è un fenomeno nuovo con diversi livelli di coinvolgimento e «contaminazione», che interessa più l'Europa che i paesi d'oltroceano. Si creano necessità pastorali nuove, a cui gli europei sono decisamente meno preparati degli americani.
L'Oriente cristiano è oggi più consciuto di una volta in Occidente, ma non sono ancora scomparsi molti luoghi comuni, c'è ancora molta ignoranza. Dal Concilio Vaticano II è radicalmente cambiato il clima ecclesiale, che prima era poco favorevole. Anche Giovanni Paolo II, che pure era «latino», è stato percepito dagli occidentali come un papa dell'Oriente, e con la sua straordinaria sensibilità ha molto contribuito ad una conoscenza più specifica e profonda dell'Oriente, che non è certo scomparsa sotto Benedetto XVI.


In questo quadro, come vivono le Chiese Cattoliche Orientali?
Le Chiese Orientali sono forme istituzionali che si inseriscono nella vita dei loro popoli, di cui condividono gioie e dolori. Esse hanno un grande ruolo anche nella Chiesa universale; devono uscire definitivamente dai loro complessi di inferiorità, ed esprimere pienamente la loro identità. Hanno molto da dare a tutti.

Lei sostiene che ormai il termine «uniate» non è più attuale.
In effetti bisognerebbe smettere di usarlo, gli ortodossi spesso gli attribuiscono un valore dispregiativo, e gli occidentali per ignoranza lo usano spesso in modo superficiale e scorretto. Non esistono più gli uniati, nel senso di persone che hanno firmato un documento di Unione con la Chiesa romana: si tratta di un fenomeno storico ormai lontano nei secoli, di cui gli uomini oggi non hanno più una coscienza diretta. Io sono cresciuto in una famiglia cattolica orientale, senza neanche conoscere questa parola fino all'età adulta; non si usa in Slovacchia, come non si usa in Medio Oriente, è un termine storicamente appartenente alla storia dei territori dell'antico regno polacco-lituano. Oggi l'autocoscienza dei cattolici orientali si esprime in modalità diverse a seconda delle situazioni, una cosa è la Chiesa Cattolica Malabarese in India, un'altra la Chiesa Cattolica Bizantina in Grecia, ma tutte hanno ormai la loro identità, da conoscere e rispettare. Sono diversi anche i rapporti con le Chiese Ortodosse, laddove esse rappresentano la maggioranza dei cristiani di una popolazione è assai differente dai paesi in cui esse rappresentano una minoranza, come la Chiesa Assira dell’Est dell'Iraq o la Chiesa Ortodossa in Slovacchia. Non sempre quindi i cattolici orientali sono minoranze, e non dappertutto portano il peso di fratture storiche.


Come vede la fase attuale del movimento ecumenico?

Bisogna dire che lo scopo dell'ecumenismo negli ultimi 50 anni si è pienamente realizzato all'interno della Chiesa Cattolica, trasformando profondamente la mentalità e la coscienza di tutte le sue componenti, dall'alto in basso e trasversalmente. Tra i cattolici c'è ormai un orientamento ecumenico indubbio e irreversibile. Nelle Chiese Ortodosse c'è una situazione più variegata, più stratificata: una cosa è la posizione delle gerarchie, un'altra l'atteggiamento del clero o delle popolazioni dei paesi ortodossi. Un fattore importante è la ripresa dei lavori delle Commissioni teologiche bilaterali, soprattutto quella Cattolica-Ortodossa, di cui aspettiamo gli sviluppi dopo l'incontro di Ravenna del 2007. Ci sono molti segnali positivi, visite reciproche e incontri con i vari Patriarchi. Naturalmente tutti aspettiamo l'elezione del nuovo Patriarca di tutte le Russie, il cui ruolo in questo campo è tutt'altro che secondario.
Del resto è difficile dire come viene percepito lo scopo ultimo del lavoro ecumenico dalle varie parti coinvolte, se esso debba davvero tendere all'unione dei cristiani o continuare all'infinito, limitandosi alla «civilizzazione dei rapporti» tra enti destinati a rimanere comunque separati fino al giorno del Giudizio. Da un certo punto di vista si è fatto tanto, ma per giungere ad una vera unità si è fatto ancora troppo poco; è una questione ancora aperta, ci sono molti dubbi e perplessità sul fatto che tutti condividano l'ottica generale e gli scopi del movimento ecumenico.



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© Pontificio Istituto Orientale a cura di P. Stefano Caprio