La sfida dell’icona

papa francesco ortodossi iconadi GIOVANNI CERRO

«È del tutto assurdo e sconveniente dipingere sulle icone il Signore Sabaoth, ossia il Padre, con una barba bianca, con il Figlio unigenito sulle ginocchia e con una colomba al centro, poiché nessuno ha mai visto il Padre nella sua Divinità». Così stabilisce il Grande concilio di Mosca del 1666-1667, nel tentativo di porre un freno alle immagini di Dio Padre come una figura anziana che dall’alto sorveglia il destino degli uomini.
Agli occhi della Chiesa ortodossa, infatti, la diffusione dei nuovi canoni dell’arte rinascimentale europea minaccia di violare la trascendenza di Dio, che deve rimanere irrappresentabile. Diverso è il caso di Cristo che, essendosi fatto uomo, può essere rappresentato a patto che l’immagine ne rispetti la duplice natura umana e divina. Compito delle icone è perciò rendere visibile e presente il mistero della sua incarnazione. Uno straordinario esempio di come gli artisti della tradizione bizantino-ortodossa abbiano posto la loro abilità al servizio della fede è la collezione, unica nel suo genere, di centodue icone russe databili dalla seconda metà del XVII secolo fino a tutto il XIX secolo e conservate presso lo Studio Teologico Sant’ Antonio di Bologna. La raccolta si deve all’imp egno del francescano Tommaso Toschi, a lungo delegato della diocesi di Bologna per le Chiese dell’oriente europeo. All’analisi di queste icone è stata dedicata una Giornata di studio nell’aprile 2014, i cui atti sono ora disponibili nel volume Icona. La bellezza rivelata a cura di Emanuela Fogliadini (Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2015, pagine 121, euro 16). Se nella prima parte gli interventi offrono una riflessione sul valore teologico, liturgico ed ecclesiale delle icone, nella seconda si dà spazio alla riproduzione con relativo commento di diciotto esemplari tra i più significativi della collezione, che testimoniano la varietà dei soggetti iconografici scelti — dal celebre tema del Cristo pantocratore alla più rara cena di Emmaus — e la loro ricchezza teologica. Tra tutte le icone un ruolo decisivo è svolto da quelle cosiddette acheropite, ovvero non fatte da mano d’uomo ma donate da Cristo stesso agli uomini. Queste icone, cruciali per la tradizione bizantino-ortodossa sia dal punto di vista liturgico e fideistico che iconografico, sono in genere poco frequentate dalla storia dell’arte occidentale. L’esempio più importante e celebre tra gli acheropiti, a cui sono riconosciuti poteri miracolosi e che iniziano a diffondersi a partire dal VI secolo, è certamente il mandylion. Sulla sua origine esistono due differenti versioni, tramandate da altrettanti testi apocrifi. La prima versione, contenuta nella Dottrina di Addai, un testo siriaco di complessa composizione e generalmente datato tra il IV e il VI secolo, racconta che il ritratto di Cristo sarebbe opera del pittore Anania, artista di corte del re di Edessa Abgar V, inviato presso Gesù per implorare la guarigione del sovrano dalla lebbra. L’icona piacque tanto al re che, dopo essere stato miracolosamente sanato dalla sua malattia, la pose in una delle stanze del suo palazzo. Secondo l’altra versione, invece, narrata negli Atti di Taddeo, sarebbe stato Cristo stesso a lasciare impressi i tratti del proprio volto su un panno, poiché il pittore Anania non era stato in grado di cogliere le sue sembianze. Questa variante del racconto determina una svolta nel concetto di raffigurazione sacra: l’icona non è più attribuita all’ingegno di un pittore, ma a Cristo stesso e sarebbe per questo la garanzia o prova dell’incarnazione. L’indagine sulle icone, come mette bene in luce Fogliadini, già autrice di diversi saggi sul tema, necessita pertanto di un’attenzione metodologica particolare, capace di combinare i dati storici con la riflessione teologica e di confrontarsi con le fonti senza pregiudizi. Nelle icone che raffigurano il volto di Gesù sono presenti numerose caratteristiche ricorrenti. Vediamo una persona di circa trent’anni ancora in vita, con le due metà del volto simmetriche, i capelli perfettamente divisi, gli occhi grandi e aperti, diretti verso lo spettatore, e la bocca piccola che sembra in procinto di parlare. Curiosa è anche la presenza dei lobi esterni delle orecchie, che suggeriscono l’attenzione di Cristo verso chi lo contempla e lo prega. Il volto è generalmente inserito sullo sfondo di un drappo di colore bianco argento con gli estremi superiori annodati, che rimanda al mandylion e che spesso è ornato da motivi floreali. Talvolta il panno è tenuto da angeli adoranti allo scopo di conferire all’immagine un’aura ancora più sacrale. Come dimostra la collezione dello Studio Teologico Sant’Antonio di Bologna, l’icona non è una semplice opera d’arte, ma una vera e propria «teologia in immagini», frutto di una tradizione millenaria. È il luogo in cui può realizzarsi l’incontro tra la dimensione umana e quella divina. «La riscoperta dell’icona cristiana — scriveva Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Duodecimum Saeculum — aiuterà anche a far prendere coscienza dell’urgenza di reagire contro gli effetti spersonalizzanti, e talvolta degradanti, delle molteplici immagini che condizionano la nostra vita nella pubblicità e nei mass-media; essa infatti è una immagine che porta su di noi lo sguardo di un Altro invisibile, e ci dà accesso alla realtà del mondo spirituale ed escatologico».

© Osservatore Romano - 13 marzo 2016