Il dono della santità
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- Creato: 04 Settembre 2019
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Al centro del XXVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa il tema della vocazione cristiana
Un incoraggiamento «ad approfondire i tesori spirituali che accomunano cattolici e ortodossi, per essere convincenti testimoni del
Vangelo della vita e donare speranza all’umanità in ricerca di risposte autentiche» è stato rivolto da Papa Francesco agli organizzatori e ai partecipanti alventisettesimo Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa che si è aperto a Bose la mattina di mercoledì 4 settembre con la prolusione del fondatore della comunità, di cui pubblichiamo ampi stralci. L’incoraggiamento è contenuto in un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, attraverso il quale il Santo Padre «assicura un orante ricordo ed invia la benedizione apostolica».
All’appuntamento, che si concluderà venerdì 6 settembre, sul tema «Chiamati alla vita in Cristo», prendono parte numerose delegazioni delle Chiese cristiane le cui relazioni offrono un’importante occasione di riflessione sulle scelte fondamentali dell’esistenza.
Numerosi anche i messaggi e gli attestati di stima inviati agli organizzatori. «Il tema della “Vita in Cristo” — scrive il patriarca ecumenico Bartolomeo — è, davvero, di centrale importanza nella spiritualità ortodossa. Poiché spiritualità significa vita nello Spirito santo, donatoci da Cristo nei sacramenti, un’esperienza genuina della spiritualità è dunque vissuta nel seno della Chiesa. Per questo motivo — continua Bartolomeo — dobbiamo essere in comunione con la Chiesa e lavorare per l’unità dei cristiani ovunque, per essere continuamente nutriti dall’indivisa unità del Corpo di Cristo». Il patriarca ecumenico, inoltre, esprime gratitudine alla comunità monastica di Bose «per i suoi infaticabili sforzi nel promuovere i ricchi tesori della spiritualità ortodossa e per i suoi contributi in vista di coltivare uno spirito ecumenico».
Anche Hilarion, metropolita di Volokolamsk e presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato di Mosca, nel suo messaggio sottolinea la necessità di unire gli sforzi di cattolici e ortodossi nell’annuncio del Vangelo della salvezza. «L’appello al rinnovamento della vita del mondo in Cristo Gesù — scrive — non perde mai la sua attualità, ma in alcuni periodi storici diventa particolarmente necessario. A questi tempi appartiene anche il nostro: tempo delle divisioni tra i cristiani, dei conflitti tra le nazioni, dell’acuta ingiustizia sociale e della crisi ecologica globale».
Sull’importanza dell’unità dei cristiani si è soffermato il primate della Comunione anglicana e arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. «Se siamo uniti nella nostra professione di fede nel Signore Gesù Cristo — si legge nel testo inviato agli organizzatori — allora egli ci chiama a essere pellegrini insieme, per imparare l’uno dall’altro e per cercare insieme di crescere nella santità e nel servizio al mondo». Mentre il patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente, Youhanna x, sottolinea nel suo messaggio quanto sia importante la fede in Cristo: «Quanto più la fede di un credente è forte e la sua imitazione dell’esempio dell’amore di Cristo è radicale, tanto più la sua risposta alla chiamata di Dio sarà profonda a tal punto da produrre cambiamenti radicali nelle priorità di scelta, nei modi di vita e di interagire con il prossimo».
Il segretario generale del World Council of Churches (Wcc), Olav Fykse Tveit, ha messo in evidenza il contributo ecumenico offerto dalla comunità di Bose. «Il monastero permane come una vera fiaccola ecumenica con il suo impegno e i suoi contributi, come evidenziano le forti relazioni e amicizie della comunità con il Wcc e i suoi membri. La spiritualità ortodossa sperimentata e vissuta in questo monastero — conclude Tveit — non può essere separata dalla sua condivisione continua al di là dei muri e delle frontiere confessionali. La vita è comunione: comunione con gli altri e con Dio».
Purtroppo quando si riflette sulla vocazione non si fa riferimento, se non in modo periferico, alla chiamata cosmica, alla chiamata all’esistenza di tutte le creature da parte di Dio. Eppure è decisivo cogliere questa vocazione, perché l’esistenza di ogni creatura del cielo e della terra implica e significa il suo essere stata chiamata. Dio non ha creato le cose solo per fornire all’umanità un proscenio, per gettarle impersonalmente nell’esistenza, ma le ha chiamate per nome.
Come già affermavano i padri della Chiesa, nel peccato gli esseri umani possono contraddire la somiglianza con Dio, ma non possono mai perdere la sua immagine. È questa immagine di Dio, eloquente in ogni uomo e in ogni donna, che è vocazione, che si fa voce nel cuore nella coscienza di ciascuno, spingendolo a pronunciare un “amen” alla vita: è un desiderio di pienezza e di felicità, una chiamata a “poter essere”. La vocazione è ciò che fa l’uomo e lo umanizza, perciò è vocazione umana singolare e universale al contempo, vocazione dalla quale nessuno è escluso, anche se nella propria libertà chiunque si può rifiutare di ascoltarla e di accoglierla. Ogni umano, in quanto tale, sente in sé, nelle sue profondità più segrete, nel santuario della sua coscienza accessibile a lui solo, una chiamata, un impulso, un desiderio a uscire da se stesso per essere capace di responsabilità, dunque di rispondere alla chiamata rivoltagli dalla vita. Solo così si può cogliere che la propria vita è unica, che non ve ne sarà un’altra a disposizione e che per questo va vissuta in una forma “sensata”, una forma che acconsenta alla salvezza.
Cosa fare della propria vita per non buttarla, per viverla in pienezza, per trovare senso, anzi il senso dei sensi, fino a farne un’opera d’arte? Questa vocazione umana va generata, custodita, temprata e confermata da ogni persona ma anche da quanti sono in relazione con colui o colei che è chiamata a fare della sua vocazione il mestiere di vivere. Se invece il vivere è senza vocazione, diventa intollerabile; e se la vocazione non diventa mestiere di vivere, allora si permane in una situazione frammentaria, “liquida”, sfilacciata, che non consente un cammino di autentica umanizzazione. C’è dunque una vocazione umana alla vita, a “poter essere”, che deve abitare ogni persona: così nasce la responsabilità verso gli altri e verso il mondo, così si attua la missione che è sempre realizzazione della vocazione, sempre risposta alla chiamata.
Nel delineare la “vocazione umana”ho cercato di fare emergere come la prima chiamata sia la chiamata alla vita, all’esistere. Se da parte degli umani manca questa consapevolezza e questa coscienza della vocazione primaria, allora la vocazione cristiana non può essere né percepita né compresa, resta come inattiva. Deve infatti essere chiaro che la vocazione cristiana non è un’altra vocazione ma si innesta sul cammino di umanizzazione in cui si è capaci di ascoltare la voce della coscienza.
Ma esiste una specificità della vocazione cristiana? Sì, è la specificità della chiamata a vivere “in Cristo”: en Christô, secondo quel sintagma così ricorrente nelle epistole paoline, espressione che riassume da sé sola il cammino della vita cristiana. È la chiamata a essere conformi a lui, il vero e definitivo Adamo, il Figlio di Dio nel quale siamo chiamati a diventare a nostra volta figli e figlie di Dio.
I cristiani sono i chiamati (kletoí) per eccellenza e la loro comunità è ek-klesía, adunanza di chiamati. La vocazione essenziale dei cristiani è quella ricevuta nel battesimo ed è vocazione unica, anche se possiamo definirla in diversi modi: vocazione alla santità, alla vita in Cristo, alla pienezza della carità, alla beatitudine... Ma quali sono le tappe fondamentali di questo cammino, di questo itinerario pensato nella tradizione cristiana a volte come una salita verso il cielo, come una scala che dalla terra giunge a Dio stesso, altre volte, più raramente, come una discesa? Poco importa l’immagine adottata e va anche detto che, all’interno dei vari percorsi, le tappe non sono sempre definite con precisione; ma ciò che è decisivo è il compimento di un passaggio dalla dissomiglianza alla conformità: si tratta di compiere un “esodo pasquale”.
Il cristiano che accetta di «camminare secondo lo Spirito» (Galati, 5, 16) acconsente a questa sua Pasqua in cui offre la sua vita nella carne (en sarkí) come sacrificio vivente, come culto secondo il Lógos (Romani, 12, 1), e così si ritrova quale figlio vivente della stessa vita di Dio. Ecco dunque l’evento della vocazione come evento reso possibile dallo Spirito santo; evento in cui la parola di Dio risuona con efficacia e chiama alla conversione, che è orientamento della propria vita verso il Signore vivente. Si tratta, per il chiamato, di essere capace di ascolto, di essere disponibile alla metánoia. «Lo Spirito santo si unisce al nostro spirito» e ci svela la nostra identità profonda, ciò che siamo e ciò che dobbiamo divenire: «figli di Dio» (Romani, 8, 16)! Attraverso le energie dello Spirito la reversio in se spinge alla conversio ad Deum.
E così le domande umanissime che abitano il nostro cuore — “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado” — trovano risposta nel «credere all’amore di Dio» (1 Giovanni, 4, 16) che non deve mai essere meritato. Credere all’amore di Dio è la condizione alla quale si deve pervenire per iniziare la seconda tappa del cammino: la “sequela del Signore”. Sequela perché il Signore Gesù Cristo ci precede e ci propone di seguirlo. “Seguimi!” è la sua parola rivolta a ogni cristiano: la chiamata non è mai generale, impersonale, né tanto meno può essere motivata da un progetto o da una risposta a urgenze, pure buone, emergenti nell’oggi della chiesa o della società.
La vita umana del cristiano coincide dunque con il vivere l’esistenza umana di Gesù. E il cristiano vive questa sequela nella luce della resurrezione del suo Signore vivente per sempre, vincitore sulla morte e sul peccato.
Ma la sequela è anche “inabitazione di Cristo”. Cristo non lo si segue soltanto per giungere alla conformità con lui, ma lo si sperimenta anche come colui che è precursore, come colui che abita in noi. Perché la sua parola dimora in noi (Giovanni, 5, 38), il suo corpo e il suo sangue, nel metabolismo eucaristico, ci fanno diventare corpo e sangue di Cristo (Giovanni, 6, 56), ci rendono tempio di Dio, abitazione dello Spirito santo (1 Corinzi, 3, 16). Questa coscienza della presenza di Cristo “in noi” e di ciascuno di noi “in lui” è decisiva nella vita cristiana. Possiamo dire di scorgere segni dell’adempimento della nostra vocazione quando sappiamo riconoscere Cristo in noi, rispondendo alla domanda rivolta da Paolo alla giovanissima comunità cristiana di Corinto: «Esaminate voi stessi, se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?» (2 Corinzi, 13, 5). O ancora, quando nella fede osiamo dire, sempre con l’Apostolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita, che io vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Galati, 2, 20). Questa è la condizione cristiana, il “mistero”, come lo chiama ancora l’Apostolo: «Cristo in voi, speranza della gloria» (Colossesi, 1, 27). Questa incorporazione a Cristo è la grande opera dello Spirito santo, “l’altro Paraclito” (Giovanni, 14, 15), che manifesta quale frutto della sequela l’inabitazione di Dio, ossia il dimorare del cristiano in Dio, cioè nell’agápe.
Così, per grazia e per la potenza dello Spirito santo, il cristiano conosce — secondo la spiritualità dell’oriente cristiano — la théosis, la divinizzazione. Si realizza allora il famoso adagio di Atanasio di Alessandria: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio» (L’incarnazione, 54, 3). Da portatore della croce, stauroforo (sequela), il cristiano diventa portatore dello Spirito, pneumatoforo (inabitazione), fino a diventare «partecipe della natura stessa di Dio» (2 Pietro, 1, 4; divinizzazione).
L’occidente, dal canto suo, mette piuttosto l’accento sull’incarnazione, sull’umanizzazione di Cristo, dunque sulla conformità del discepolo al Cristo stesso, conformità che può giungere a fare del discepolo un “somigliantissimo” al suo Signore.
In ogni caso, la chiamata alla vita in Cristo, sia in oriente sia in occidente, è sempre chiamata alla santità ottenuta in dono grazie alle energie dello Spirito santo: il chiamato cede giorno dopo giorno alla grazia che lo attira, fino a fare di lui «una creatura nuova». Ed è lo Spirito, «compagno inseparabile di Cristo» (Basilio di Cesarea, Sullo Spirito santo, 16, 39), che permette a ogni cristiano di sentire in sé una voce che come acqua zampillante ogni giorno gli ripete nell’intimo, quale sigillo della chiamata a vivere in Cristo: «Vieni al Padre!» (Ignazio di Antiochia, Ai romani, 7, 2).
di Enzo Bianchi
© Osservatore Romano - 5 settembre 2019