I cristiani in Terra santa dono per tutti

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Pierbattista Pizzaballa ordinato vescovo dal cardinale Sandri


L’unico strumento nelle nostre mani per evitare che i cristiani «emigrino dal Medio Oriente, o vengano fatti uscire da progetti non chiari», è trovare sempre «forme antiche e nuove per essere Chiesa in uscita, che ha a cuore la promozione di spazi di incontro e riconciliazione». Lo ha detto il cardinale Leonardo Sandri all’omelia della concelebrazione eucaristica per l’ordinazione episcopale del francescano Pierbattista Pizzaballa, nominato lo scorso 24 giugno arcivescovo titolare di Verbe e amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini.
Il rito presieduto dal prefetto della Congregazione per le Chiese orientali si è svolto nella cattedrale di Bergamo, sabato pomeriggio, 10 settembre. Conconsacranti sono stati Fouad Twal, patriarca emerito di Gerusalemme, e monsignor Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, diocesi di cui è originario il nuovo presule. Nel tratteggiare la figura e la missione episcopale, il cardinale Sandri ha sottolineato come il vescovo, che «nella porzione di Chiesa locale presiede nella carità, mentre vive il ministero della santificazione, munus sanctificandi», spezzando il pane della Parola e dell’Eucarestia, edifica «la comunità cristiana come casa fondata sulla roccia». E insegnando, educa a pensare che «tale stabilità, proprio perché ci è data da Dio, è anche dono che ci impegna a protenderci in avanti verso chi soffre». Riferendosi in particolare a monsignor Pizzaballa, il porporato ha indicato nel vescovo un uomo bisognoso di una «speranza affidabile per la propria vita e il proprio destino», grazie anche alla «solidarietà concreta» di quanti, da tutto il mondo, si impegnano nel sostenere la vita delle Chiese in Terra santa. In quella regione, dove il nuovo presule ha vissuto e «servito da ventisei anni, il Verbo fatto carne — ha detto il cardinale prefetto — ci ha fatto conoscere il desiderio di Dio, la salvezza per l’umanità. Lì colui che è la parola del Padre ha portato a pienezza la rivelazione». In questo senso il porporato ha fatto notare come il salmo ricordi una verità decisiva: «Tutti là siamo nati». Pertanto, non bisogna perdere la consapevolezza che in quei luoghi, «sotto le macerie frutto dei peccati, delle violenze e delle miopie di molti uomini e di molti poteri del mondo», è rimasta «la sorgente posta da Dio, che zampilla per dare sollievo e fecondità»: la presenza stessa di Gesù. Da qui l’invito ai sacerdoti e ai fedeli, affinché, sotto la guida del vescovo, riescano a trovare il coraggio ogni giorno per «scavare più in profondità dentro il proprio cuore, attraverso le vicende della storia, per ritrovare il Cristo che ne è il Signore». Allora, ha detto il cardinale, la comunità cristiana «che chiede di essere preservata, sostenuta e protetta, continuerà a essere dono per tutti, per coloro che abitano quei luoghi da secoli», ma anche per i pellegrini e per le migliaia di lavoratori migranti che ormai ne fanno stabilmente parte. Il porporato ha anche commentato il testo del profeta Isaia, tratto dal cosiddetto “libro della consolazione”, che pone l’uomo di ogni tempo davanti a una domanda: «Perché spendi denaro per ciò che non sazia e non disseta, ritrovandoti ultimamente come il popolo disperso e esiliato a Babilonia?». La risposta consiste «non in un giudizio di condanna da parte di Dio, ma in una promessa di fedeltà e di alleanza eterna». L’iniziativa ancora una volta è del Signore che «redime, raduna dalla dispersione, ama e si prende cura». Ma Dio ha bisogno «del profeta che se ne faccia portavoce e interprete, uno che viva tra gli uomini e sia capace di ridestare in loro la fame e la sete dell’autore della vita». In questo senso il vescovo, «superato il senso di inadeguatezza e confermato nell’assoluto primato della grazia, di cui ha fatto egli per primo esperienza», passa annunciando «la consolazione che viene da Dio». Il prefetto ha fatto notare come tanti in Terra santa, e particolarmente nel territorio del Patriarcato latino, hanno ancora «sete di giustizia e di pace: dimensioni fondamentali del vivere umano, che prima ancora che rivendicate come diritto dagli altri devono essere desiderate e operate nei rapporti dentro la Chiesa e tra le Chiese, oltre che con i credenti ebrei e musulmani». Rivolgendosi poi a padre Pizzaballa, ha ricordato che essere vescovo per la Chiesa latina che è in Gerusalemme, «amministrandola a nome e per conto del Santo Padre, come pure guidando l’assemblea degli ordinari cattolici di Terra santa, è compito senz’altro arduo»; ma potrà essere vissuto pieno «di gioia e di serena determinazione, perché ancorati nella parola del Signore e non nei nostri progetti umani». Questa parola infatti non è «incatenata né messa in fuga, ma efficace e porta frutto». Nel mistero della Chiesa, ha aggiunto il porporato, «ci rendiamo conto che al centro non c’è un uomo, ma la grazia di Dio che ha operato e opererà ancora più efficacemente dentro di lui». Lo ripeteva san Paolo, le cui parole sono diventate il motto episcopale di monsignor Pizzaballa: Sufficit tibi gratia mea. Si tratta — ha osservato il cardinale — di un’espressione «ben lungi da un vago sentimentalismo o da una fede disincarnata». Paolo arriva a «vantarsi ben volentieri delle proprie debolezze, perché dimori in lui la potenza di Cristo», di fronte a una situazione di grande difficoltà «nell’esercizio del ministero apostolico che gli è stato affidato dal Signore». Attraverso le esperienze dolorose Paolo «giunge alla percezione molto semplice che Cristo è il Signore» e che il suo ministro si prepara «liberando il cuore da tutto ciò che poteva essere una forma di successo proprio, divenendo strumento sempre più adatto nelle mani di Dio». Attraverso l’attimo di incomprensione con la comunità di Corinto, certamente «riprende coscienza dell’assolutezza e della trascendenza indescrivibile del mistero di Dio, che gli era diventato così vicino nell’apparizione del Cristo sulla strada verso Damasco». Il dolore dell’esperienza credente di Paolo — ha rimarcato in proposito il cardinale — «fa scaturire insieme a una lettera che lui stesso definisce “scritta tra le lacrime”, anche l’altezza e l’intensità della riflessione sul ministero della nuova alleanza e della riconciliazione», come servizio «ai fratelli nella fede e come collaborazione alla loro gioia». Con il porporato hanno concelebrato una trentina tra arcivescovi e vescovi, tra i quali i nunzi apostolici in Israele, Palestina, Giordania, Libano, Cuba, Singapore e Canada. Tra i presenti anche l’arcivescovo di Akka dei greco-melkiti, l’arcivescovo maronita di Haifa, il vicario apostolico dell’Arabia e quello di Istanbul, oltre ad alcuni vescovi nativi di Bergamo. Era presente inoltre una delegazione ecumenica, con l’arcivescovo Nektarios, inviato dal patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme. Numerosi i frati minori, in particolare quelli provenienti dalla Custodia di Terra santa.

© Osservatore Romano - 11 settembre 2016

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